Spente le luci del Lingotto, il popolo di Matteo Renzi resta in attesa. Di programmi e di una risposta sulle possibili alleanze. La stesura della mozione è rimandata alla «prossima settimana», dice il leader. La questione più scomoda dentro il partito viene rinviata perché «nessuno sa se ci sarà il maggioritario o il proporzionale». Il tema resta sospeso, impossibile dire in quale direzione andrà il Pd.
Si è solo capito, ma lo si sapeva già, che Dario Franceschini vorrebbe ancora collocare il partito al centro di intese comprendenti la sinistra, da un lato, e i moderati di Alfano e Casini dall’altro, come già annunciato durante l’assemblea del 19 febbraio: «Nella prossima legislatura le alleanze saranno larghe, politicamente improbabili, ma i numeri hanno una loro forza, solo la nostra unità ci consentirà di tenere in mano il timone di queste coalizioni». Dall’altra parte della barricata Martina e Orfini privilegiano l’attenzione verso i progressisti di Pisapia.
I tre giorni di Torino restano comunque il più grande tentativo per ridefinire il renzismo anche sul piano di cultura politica e non solo di azione di governo: così l’ex premier rivendica l’importanza del confronto e della vicinanza con gli “ultimi”, perché «questa è la sinistra, non chi canta bandiera rossa col pugno chiuso». Niente sconti agli scissionisti: «Nelle scorse settimane qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza, soprattutto mia. Ma non si sono accorti che c’è una forza, c’è una solidità, che vengono espresse dalla nostra comunità, indipendentemente dalla leadership. Si mettano il cuore in pace: il Pd c’era prima, ci sarà dopo e ora cammina con noi».
L’applauso più forte lo incassa soprattutto quando attacca il primo cittadino di Napoli Luigi De Magistris: «Quando un sindaco si schiera con chi sfascia la città, per non far parlare qualcuno, quella non è una cosa da Pd. Noi Salvini lo vogliamo sconfiggere alle elezioni, ma deve parlare». E poi quando riprende un tema lasciato ai margini nella tre giorni, quello sulla giustizia, col caso Consip ancora aperto e Luca Lotti sulla graticola: «Giustizia e non giustizialismo!», scandisce dal palco. Luca Lotti, il ministro e braccio destro indagato, lo ascolta in prima fila: «Un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato sempre e non a giorni alterni!» La platea ci mette un momento di più: incassa la frase, poi un applauso.
Quanto al governo, solo messaggi distensivi, in linea con l’impressione ormai diffusa che la legislatura sia destinata ad arrivare al 2018. «Noi siamo qui per far ripartire l’azione del governo. Siamo convintamente al fianco di Gentiloni». Ma la sola idea che il prossimo candidato premier non sia lui, non sia Renzi, l’ex segretario la respinge, in un passaggio che non è certo un dettaglio: «L’identificazione tra segretario e candidato premier non è una questione di statuto o di ambizione, ma è una consuetudine europea». E questo proprio mentre Orlando al contrario dice esplicitamente che non intenderà fare il candidato premier se dovesse vincere le primarie.
Quasi in conclusione arrivano gli auguri agli avversari candidati alla segreteria – «un caloroso in bocca al lupo a Michele Emiliano e Andrea Orlando» – auguri che a tutti suonano come sinceri considerando gli ultimi sondaggi che danno l’ex sindaco di Firenze vincitore, e non di poco: Renzi 67 per cento, 20 Emiliano, 15 Orlando.
La politica del “noi” e del futuro guidato da una classe dirigente e non più da un uomo solo al comando dura poco. Una mano tesa che rimane lì a mezz’aria, poi torna in tasca quando a fine congresso Renzi aggiunge: «Diciamocelo senza giri di parole: si deve dire “io” per poter dire “noi”. Senza “io” non si va da nessuna parte». Tradotto: senza di me non andate da nessuna parte.