Il quadro tracciato da Reporters Sans Frontière è inquietante. L’organizzazione non governativa francese ha pubblicato il suo bilancio annuale sulla situazione dei giornalisti in tutto il mondo. Sono 74 quelli uccisi nel 2016. Almeno fino al 10 dicembre scorso. Professionisti e non, reporter e inviati speciali. Nel 2015 i morti erano stati 101, ma è aumentato il numero di quelli tenuti in ostaggio o imprigionati. Rispettivamente del 6 e del 22%. Un incremento che fa paura.
Tra tra gli Stati dove si è più in pericolo di vita domina il Medio Oriente: teatri di guerra più e meno recenti, come Siria, Yemen, Iraq e Afghanistan. Secondo RSF la risposta da parte delle testate è stata diminuire il numero dei propri professionisti, creando quindi un buco di informazione. Non si rischia solo nei paesi in guerra. Il Messico, per esempio, è tra le nazioni più temibili, con i nove giornalisti caduti nell’ultimo anno.
Nella maggior parte dei casi i cronisti sono assassinati deliberatamente. Come accaduto a gennaio in Afghanistan, dove in dieci hanno perso la vita in seguito a un attentato suicida contro il minibus del canale televisivo privato Toloo, poi rivendicato dai talebani. L’associazione denuncia l’impunità dei delitti e la complicità dei governi troppo spesso inclini a calpestare la libertà di stampa.
La Turchia invece detiene il triste primato di giornalisti imprigionati. Dopo il fallito colpo di stato dello scorso luglio, di più di cento persone si trovano in carcere, tra cronisti e collaboratori dei media. Per almeno 41 di essi, l’organizzazione individua una linea diretta tra la carcerazione e il lavoro svolto. La stretta autoritaria del presidente Erdogan ha funzionato. Giornalisti portati davanti alla giustizia addirittura con l’accusa di terrorismo. 57 poi il numero di quelli attualmente in ostaggio in giro per il mondo, di cui 21 solo in Siria, prigionieri dell’Isis.