Volendo raccontare ai posteri questa riforma costituzionale, nessuna definizione potrebbe meglio rendere l’idea di “giungla parlamentare”. Il lungo e tortuoso percorso del progetto di riforma, votato per sei volte tra Camera e Senato, è disseminato di accordi, strappi, dichiarazioni contraddittorie, notevole frammentazione dei gruppi parlamentari. La strada in salita della riforma costituzionale è andata spesso a incrociarsi ad altri sentieri, come quello dell’Italicum (legge elettorale pensata per andare di pari passo) e del cosiddetto Patto del Nazareno, l’accordo sulle riforme tra Renzi e Berlusconi, rotto dopo l’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica.
Andiamo con ordine. L’8 dicembre 2013 Matteo Renzi vince le primarie del Pd e, il 18 gennaio 2014, dà vita con Berlusconi al cosiddetto “Patto del Nazareno” (largo del Nazareno è il luogo nei cui pressi si trova la sede del Pd). Tale accordo suggella un’intesa volta a riformare la costituzione e dotare il Paese di una nuova legge elettorale. Tra i principali promotori e sostenitori dell’accordo c’è Denis Verdini, allora in Forza Italia.
Il 22 febbraio 2014, otto giorni dopo le dimissioni di Enrico Letta, il nuovo governo Renzi presta giuramento. L’iter parlamentare della riforma inizia l’8 aprile 2014, quando il Presidente del Consiglio e il ministro Boschi presentano il ddl costituzionale al Senato.
Il ddl Boschi viene approvato in prima lettura al Senato l’8 agosto del 2014 con 183 voti a favore, 4 astenuti e nessun contrario: Gal, Lega, Sel e M5S disertano l’aula. Sono i giorni in cui Forza Italia vota la riforma e il capogruppo Paolo Romani afferma: “Questa riforma porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Stiamo scrivendo una pagina storica”. Seppure in una lettera fatta recapitare ai senatori azzurri Berlusconi rimarchi il ruolo di opposizione svolto da Forza Italia, il Patto del Nazareno appare ancora solido.
Il 31 gennaio 2015 Sergio Mattarella viene eletto Presidente della Repubblica: è la fine del Patto del Nazareno, punto di svolta cruciale nel percorso della riforma costituzionale. Berlusconi non manda giù questa scelta, che sembrerebbe presa unilateralmente da Renzi, e ritira il suo sostegno al ddl Boschi. Il 10 febbraio scatta la rappresaglia forzista: Francesco Paolo Sisto si dimette da relatore delle riforme istituzionali a Montecitorio. Per la maggioranza suona la carica l’allora capogruppo alla camera Roberto Speranza, oggi convinto sostenitore del No al Referendum, che dichiara: “Il fatto che la maggioranza delle riforme sia più stretta non è un fatto positivo, ma non ci sono poteri di veto”, aggiungendo poi: “ritengo fondamentale affermare tutta la nostra volontà di andare avanti”, sottolineando che le riforme “si fanno perché ne ha bisogno l’Italia”.
Oggi Speranza sembra essere di diverso avviso. Sostiene di considerare riforma costituzionale e Italicum come parti di un unico sistema e, dunque, se non cambia l’Italicum (ma non si capisce bene come) il suo voto alla riforma è No. Rimanendo ai giorni nostri si denota una certa confusione nella minoranza Pd, soprattutto quando Gianni Cuperlo passa da sostenitore del No a sostenitore del Sì, affermando di aver finalmente ottenuto quelle modifiche all’Italicum che la minoranza chiedeva da mesi.
Il 10 marzo 2015, con 357 sì, 125 no e 7 astenuti, la riforma passa anche alla Camera e ritorna al Senato. Forza Italia ufficializza la fine del patto col Pd votando no. Ma, nonostante il compiacimento di Berlusconi per la compattezza del gruppo, si intravedono già i primi malumori. Una lettera firmata da 20 deputati vicini a Verdini sottolinea la condivisione del ddl Boschi, seppur per fedeltà alla linea il voto in aula sia stato contrario.
Non va meglio in casa Pd. Stefano Fassina (oggi fuoriuscito) non partecipa al voto, Cuperlo vota sì in aula ma firma una lettera targata Sinistradem (la sua area di minoranza) dove si chiedono modifiche sia alla riforma che all’Italicum.
Il 23 luglio 2015 Denis Verdini saluta Forza Italia e pochi giorni dopo annuncia la nascita di nuovi gruppi parlamentari sotto il nome di Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (Ala); l’obiettivo dichiarato è il sostegno alla riforma costituzionale. Piuttosto curioso che un gruppo denominato “autonomie” sostenga una riforma che, rivedendo il titolo V della costituzione, ridimensiona competenze e poteri regionali.
Il 13 ottobre 2015 il Senato si esprime per la seconda volta a favore della riforma con 179 sì, 16 contrari e 7 astenuti. Il gruppo Ala vota a favore. Da questo momento in poi le posizioni in Parlamento resteranno sostanzialmente le stesse. Ci saranno altre tre votazioni:
- 11 Gennaio 2016: la Camera approva con 367 sì, 194 no, 7 astenuti
- 20 Gennaio 2016: il Senato approva con 180 sì, 112 no, 1 astenuto
- 12 Aprile 2016: la Camera approva con 361 sì, 7 no, 2 astenuti
Fuori dal Parlamento invece non sono mancati i colpi di scena. Si è passati infatti dal “Se vince il No me ne vado”, al “il 4 dicembre non è un voto sul governo” del Presidente del Consiglio Renzi; senza contare le prese di posizione di chi un tempo sosteneva la necessità di un riforma in questo senso, mentre adesso la avversa.