Le pressioni internazionali esistenti sul referendum costituzionale del 4 Dicembre sono significative. Già nel 2013 analisti della banca d’affari JP Morgan argomentarono in un report che le Costituzioni dell’Europa del Sud risentono troppo del compromesso socialdemocratico del dopoguerra, e vanno cambiate perché garantiscono troppo potere alle Regioni, alla difesa dei diritti dei lavoratori e al diritto di protesta.
Guardando a quanto avvenuto negli ultimi mesi, vediamo che dagli USA si è mostrato un certo interesse perché la riforma sia approvata, mentre dal Regno Unito Financial Times ed Economist hanno assunto posizioni tendenzialmente diverse. Sul fronte delle agenzie di rating, la tendenza è favorevole al sì, pur se con differenti sfumature.
Abbiamo interrogato alcuni esperti e politici su quale sia a loro avviso il significato di queste prese di posizione.
Secondo il direttore della rivista Limes, Lucio Caracciolo, alcuni di questi osservatori internazionali “hanno sovrastimato il pericolo” derivante dal no. E Obama ha commesso un errore simile “a quello commesso da Renzi nell’appoggiare la vittoria della Clinton”. Aggiunge: “Non vedo possibili ripercussioni negative immediate, a prescindere da ciò che accadrà. C’è più che altro timore di svolte populiste dopo la Brexit e l’elezione di Trump, i cui rischi sono stati sovrastimati anche da molti analisti finanziari. Ma per l’Italia non vedo nemmeno rischi a meno che Renzi non si dimetta e si vada immediatamente a elezioni. Ma potrebbe anche nascere un governo tecnico”.
Dalla parte dei sostenitori del No, si temono le ingerenze straniere e in particolare della finanza. Alfonso Gianni, del Comitato per il No, sposa in pieno la tesi degli interessi finanziari dietro la riforma. Ricordando il report di JP Morgan, spiega che “la revisione costituzionale nasce su input determinante della grande finanza, la quale non è affatto interessata alla democrazia, quanto alla stabilità politica in un quadro di politiche economiche neoliberiste che, riducendo o abbattendo lo stato sociale, creino spazi di penetrazione e di profitto per la finanza stessa”. A questi interessi si devono, a suo avviso, anche gli interventi delle autorità USA. Citando un articolo di Munchau sul Financial Times, che ricordava anche il ritardo italiano nella produttività dall’ingresso nell’euro, Gianni ci ha spiegato anche che “quella debolezza strutturale” è proprio il frutto ”di quelle politiche neoliberiste congiunte con le scelte di austerità imposte dalla Ue, che la grande finanza vorrebbe perpetuare”.
Anche il deputato M5S Danilo Toninelli attacca gli interessi finanziari dietro la riforma: “Si tratta di interessi legati per lo più a quelli del capitalismo finanziario globale, che muovono cioè nella direzione della maggior deregolamentazione possibile, salvo poi invocare l’aiuto degli Stati quando le bolle speculative esplodono, come è avvenuto negli anni successivi alla crisi del 2008. Il loro giudizio si basa primariamente sull’impatto che un esito negativo del referendum potrebbe avere sul Governo attuale, non sul contenuto della riforma.” Anche gli Stati Uniti, prosegue, hanno o perlomeno avevano con Obama un interesse nell’approvazione della riforma: la susseguente approvazione del TTIP. Per Toninelli non ci sono altri motivi che giustifichino queste posizioni. Ci dice infatti: “Io non ritengo che gli Stati Uniti o le agenzie di rating abbiano approfondito i contenuti della riforma costituzionale”.
L’ex candidato del M5S alla presidenza della Repubblica Ferdinando Imposimato conferma gli interessi finanziari dietro questa riforma: “La riforma conferisce maggiori poteri al premier che può essere facilmente controllato e gestito dalle agenzie di rating di quanto non sia possibile con un sistema in cui vi sia separazione ed equilibri dei poteri. Tanto è vero che alcuni presidenti del Consiglio italiani erano consulenti delle agenzie più importanti come Goldman Sachs e JP Morgan”.
Dalla parte del Sì, c’è chi come il deputato di Area Popolare Rocco Buttiglione è d’accordo con Toninelli sul disinteresse dei mercati finanziari per il merito della riforma: “I mercati preferiscono sempre la stabilità politica. Per fare investimenti si vorrebbe contare su di un futuro prevedibile. L’Italia è considerata un paese a elevato rischio politico. Non interessa tanto il risultato del referendum quanto gli avvenimenti successivi.” Ma a differenza del deputato M5S, Buttiglione coglie dei pericoli in caso di vittoria del no: “Non bisogna dimenticare però che, soprattutto sul mercato dei derivati, c’è chi ha scommesso sulla bancarotta dell’Italia e quindi fa il tifo per il no. Qui c’è anche una componente politica: in America alcuni vogliono sfasciare l’euro per restituire agli Stati Uniti il controllo assoluto della finanza mondiale. Chi scommette contro l’Italia scommette al tempo stesso contro l’euro”.
Il deputato PD e sostenitore della riforma Antonio Misiani, invece, minimizza gli interessi finanziari sul referendum e i pericoli di respingimento della riforma: “Le teorie del complotto finanziario sono sciocchezze. Io non sono d’accordo con molto di ciò che dice il report della JP Morgan, e da qui a dire che la riforma venga da loro ce ne passa. I mercati hanno un po’ paura di una possibile instabilità futura vista l’ancora delicata situazione economia nazionale ed internazionale, ma non dobbiamo nemmeno usare toni catastrofistici se la riforma non passasse. Non è la stessa cosa se vince o perde il sì, ma dobbiamo essere responsabili”.