HomeCronaca 43 anni dall’uccisione di Spampinato. Borrometi: «Ragusa lo ha dimenticato»

43 anni dall’uccisione di Spampinato. Borrometi: «Ragusa lo ha dimenticato»

di Valerio Dardanelli28 Ottobre 2015
28 Ottobre 2015

spampinato-anniversario-morteGiovanni Spampinato oggi avrebbe sessantanove anni, qualcuno però ha deciso di fermare la sua vita con sei colpi di pistola quando di anni ne aveva appena 25. Era il 27 ottobre del 1972: quella sera venne attirato nella periferia di Ragusa da Roberto Cambria, figlio dell’allora presidente dei Tribunale locale, che lo uccise a revolverate. Subito dopo si costituì dicendo di avere agito in un impeto d’ira perché ingiustamente accusato da Spampinato in diversi articoli. L’omicida venne condannato a 14 anni di reclusione, ma ne scontò solo otto, in un manicomio giudiziario. Spampinato, brillante cronista, corrispondente da Ragusa del quotidiano “L’Ora” di Palermo e de “l’Unita'”, firmava le sue inchieste nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

«Del suo lavoro Giovanni aveva un’idea altissima, generosa e nobile. Non si tirò indietro al ruolo di custode del racconto e del giornalismo imparziale e libero. Non scese mai a patti con la sua coscienza e assolveva al ruolo di raccontare e informare la sua comunità, anche se ciò poteva costare caro». Con queste parole Paolo Borrometi, collaboratore dell’Agi, minacciato di morte dalla mafia ragusana e da oltre un anno sotto scorta, ha voluto ricordare l’impegno di Spampinato.

«Giovanni pagò con la sua vita il prezzo del proprio lavoro. Eppure ancora oggi, a distanza di 43 anni dalla sua morte, ci sono tanti aspetti poco chiari su questo omicidio. Spampinato è un martire dimenticato. La mancanza di memoria della sua provincia, Ragusa, che non lo ricorda, o fa finta di non ricordare, è vergognosa. C’è in giro gente che ancora sostiene che, in fondo, Giovanni se l’è cercata. Non si può continuare a scambiare i carnefici per vittime», ha proseguito Borrometi, sottolineando che «bisogna parlare ai giovani di Spampinato come di un “eroe normale”, perché possano vedere in lui un modello positivo dal quale trarre ispirazione».

Valerio Dardanelli

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