Matteo Renzi torna in serata dal G7 in Baviera per dirigersi in via del Nazareno e partecipare alla direzione del partito Democratico. Sul banco, i risultati delle ultime elezioni regionali, ma anche la “Buona Scuola” e la condotta interna al partito.
«Abbiamo il governo di 17 Regioni su 20 – esordisce il premier – difficile far capire all’estero che si pensa di aver perso…». «Tutto il Sud è nelle nostre mani», continua, e sul caso Campania spiega che «De Luca ha davanti delle sfide da far tremare i polsi». Velatamente, un invito a non mettere pressioni con la questione Severino e impresentabili. Poi, Renzi affronta i problemi emersi con il voto del 31 maggio, dall’astensionismo «preoccupante», all’abbandono delle roccaforti della sinistra: «Non esiste più il voto di rendita. Abbiamo perso luoghi simbolo», dice citando il caso Prato ma riferendosi anche alla Liguria.
Il tema successivo e il più contingente è quello legato alla “Buona scuola”. Una riforma fatta «non per assumere 200mila persone, come un ammortizzatore sociale, ma per i giovani», e sulla quale Renzi preferisce aspettare, evitando fratture interne pericolose e critiche di “decisionismo frettoloso”. «Prendiamoci altre due settimane di tempo e andiamo a discutere in ogni circolo» annuncia, ma «se vogliamo approvare la riforma della scuola così com’è lo facciamo domani mattina – dice sicuro Renzi – anche a costo di spaccare il Pd». Ma accelerare troppo sarebbe «un errore politico», spiega, aprendo al confronto anche sulle riforme istituzionali per le quali si dice disponibile «ad una riflessione purché si chiuda».
Altra preoccupazione è il centrodestra che esiste, c’è ed è a trazione Lega Nord, e che «sferra l’attacco più insidioso su di noi». Poi, la sinistra di Landini, «pura demagogia, destinata alla sconfitta», e Beppe Grillo, che «è stabilmente la terza forza». Insomma, il messaggio è chiaro: le preoccupazioni vengono dal centrodestra che, se unito come in Liguria, può tornare competitivo. E a chi pensa di lasciare il Pd per unirsi alla coalizione sociale di Landini, Renzi fa sapere che sarebbero passi mossi sulle sabbie mobili. Senza annunciare sanzioni o misure, il premier mette dunque un paletto a «voti di coscienza declinati in correnti» e annuncia un codice di condotta interno.
Chiusa la direzione, gli esponenti della minoranza Pd escono alla spicciolata dal Nazareno per andare a parlare con i giornalisti, spiegare che «è necessario il coinvolgimento di tutti», come ribadisce anche oggi Cesare Damiano a Repubblica. Ma la minoranza, all’uscita, è colta di sorpesa. Stefano Fassina tenta di rilasciare qualche dichiarazione alle telecamere che lo circondano. Viene però interrotto dai manifestanti che protestano fuori dal Nazareno contro la riforma della scuola e che gli urlano “zozzo”, “vergogna”. Un giornalista interviene e spiega «Ma no, è Fassina. Uno della minoranza». La reazione urlata di una manifestante spiazza tutti: «No. Pure lui. Vergogna pure lui» (sic). Poi, è il turno di Roberto Speranza, dimissionario capogruppo alla Camera, che al grido lanciato dai contestatori «Prendete una posizione», si ripara in un disperato «ma io la riforma della scuola non l’ho votata». Niente da fare. I manifestanti fuori dal Nazareno sembrano non voler prendere in considerazione l’esistenza di minoranze, opposizioni interne, correnti e sottocorrenti. E così, inaspettatamente, il Pd appare agli occhi della gente come un partito compatto.