La neuroscienza è una disciplina sempre più usata nella giurisprudenza: un elemento probante, tanto che in ordinamenti come quello statunitense ha permesso di abolire, dove prevista, la pena di morte per i minorenni. Lo sottolinea Guglielmo Gulotta, professore di criminologia all’Università di Torino, durante il convegno organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma sul tema “Attualità delle neuroscienze forensi”, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Francesco Iacoviello della Corte di Cassazione e Giuseppe Sartori dell’Università di Padova.
Negli Stati Uniti nel solo 2012 sono state registrate oltre 250 sentenze che utilizzano la neuroscienza, e il trend è in aumento. “La grossa paura riguarda, come sempre, il libero arbitrio – ha proseguito Gulotta, che ha poi aggiunto – perché la nostra cultura non può ammettere che le nostre azioni dipendano dai nostri neuroni. Siamo anche schiavi di questo”. Un’ affermazione che in qualche modo capovolge alcuni concetti espressi nell’intervento precedente di Umberto Castiello del Centro Linceo, tra i “neuroscienziati” più moderati: non a caso parla di “rischio eccessivo nell’abuso della prova neuroscientifica come strumento di difesa giudiziaria”.
In Italia il primo caso di utilizzo della prova neuroscientifica è stato quello di Stefania Albertani, che nel 2009 uccise la sorella maggiore facendola prigioniera, dandogli pesanti dosi di psicofarmaci, causandone la morte e infine bruciando il cadavere. Qualche mese dopo tentò di assassinare anche la madre. I giudici, per la prima volta nel nostro Paese, decisero di riconoscerle un vizio parziale di mente, rilevando alterazioni in “un’area del cervello che ha la funzione di regolare le azioni aggressive” con, dal punto di vista genetico, “dei fattori associabili ad un maggior rischio di comportamento violento”. Pena comminata, 20 anni di carcere.
Dal dibattito emerge quello che può essere il maggior limite delle neuroscienze: la costituzione di una sfera di soggettività che, in nome delle analisi a prova di lesioni o disturbi psichiatrici, può eliminare, di fatto, l’elemento oggettivo del crimine commesso. Ne parla in modo esplicito il primo intervento da un punto di vista “accusatorio” tenuto da Francesco Iacoviello della Corte di Cassazione: “La neuroscienza è una rivoluzione, non si può pretendere di introdurla senza patemi: se fosse deciso tutto in base ad essa cambierebbe ogni aspetto del processo penale, dal modo di ragionare del giudice alle ragioni delle sentenze stesse”. Poi aggiunge: “Il rischio maggiore è di sfruttare l’analisi celebrale come attenuante di un crimine, ma bisogna riconoscere anche un naturale ritardo dei processi civili e penali rispetto a qualsiasi tipo di evoluzione storica: è un fatto già avvenuto in passato”. Un modo per sintetizzare il pensiero può essere il seguente: ad oggi, le neuroscienze giovano solo alla difesa. Hanno quindi bisogno di evolversi in senso contrario, in modo da costituire prova anche a favore dell’accusa: “Se la difesa presenta una prova scientifica vera all’85%, il giudice deve accettarla perché supera la soglia del ragionevole dubbio”, conclude Iacoviello.
Un problema, insomma, a oggi affrontato ancora in fase embrionale, nonostante “la disciplina moderna esista già dalla fine del XIX secolo” come dice, poi, Giuseppe Sartori.
Stelio Fergola