“Non si può parlare della Prima Guerra Mondiale senza parlare della guerra” esordisce Andrea Ciampani della Lumsa di Roma, nel pomeriggio della seconda giornata del Convegno Internazionale sulla Grande Guerra in corso a Roma.
Del resto “un conflitto di cui alcuni dei motivi scatenanti iniziano a trovarsi già nei documenti austro-ungarici del 1906” come sostiene Almerigo Apollonio dell’Università di Trieste, non poteva, col senno di poi, che portare ad una rivoluzione tecnico-tattica mai vista prima: l’affermazione dellla trincea come stasi bellica, ossia l’aspetto più lacerante del conflitto, così come la vita praticata dai soldati ancora vivi in mesi ed anni di lotta, sono solo alcuni degli aspetti esaminati. Fossati fino a due metri di profondità che si estendevano per chilometri al fronte, allo scopo di dare riparo agli uomini durante le lunghissime e difficili battaglie. Un sistema non del tutto nuovo, già visto cinquant’anni prima nella guerra di secessione americana del 1861 e nel conflitto russo-giapponese del 1904. Così logorante da lasciare strascichi psicologici fortissimi in tutti coloro che riuscirono a tornare a casa e che non può essere escluso dall’analisi dello scontro tra italiani e austriaci.
Ma l’altra grande novità della Grande Guerra, soprattutto per l’Italia, è stata anche quella delle battaglie montane. Tra le cime del Massiccio dell’Adamello (tra Lombardia e Alto Adige) italiani e austro-ungarici si combatterono ad oltre 3000 metri di altezza, e lo stesso avvenne sulle Dolomiti orientali e nella Marmolada tra Veneto e Trentino. Queste battaglie hanno assunto nelle analisi storiche “caratteristiche quasi mitologiche” come spiega Oswald Überegger dell’Università di Bolzano, soprattutto per la notevole preparazione degli Alpini, ossia il corpo più presente tra quelli italiani nelle lotte ad alta quota ma considerati da molti i veri protagonisti del fronte italiano, naturalmente concentrato verso le montagne e verso confini più sicuri. E le armi? Merito dei cosiddetti “portatori”, che avevano lo scopo di trasportarle insieme al cibo ai soldati delle montagne. Ma è più corretto chiamarle “portatrici” visto che il ruolo era impiegato da donne, considerato la stragrande maggioranza di uomini impiegati nei combattimenti. Per difendere quell’ultimo “confine naturale rappresentato dal Piave”, come recita uno degli ultimi interventi della giornata.
Stelio Fergola