A cento anni di distanza la ferita tra turchi e armeni è ancora aperta. Tra il 1915 e il 1916 circa due milioni di armeni sono stati sterminati senza alcuna pietà. Oltre alle impiccagioni, alle fucilazioni, alle torture e agli stupri, il partito dei “Giovani Turchi”, per accelerare la pulizia etnica, deportava gli armeni nel deserto dove questi morivano di sete e di fame. Ancora oggi la Turchia rifiuta la definizione di genocidio.
Genocidio. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 nella città di Instanbul, avvenne il primo rastrellamento contro il popolo Armeno. 300 persone appartenenti alla classe dirigente e all’elitè culturale, furono deportati in Anatolia attraverso il deserto. I sopravvissuti alla sfiancante marcia, furono trucidati una volta giunti a destinazione. L’episodio fu il via a un’escalation di violenza che portò alla decimazione di un intero popolo.
Terminano oggi a Erevan la serie di iniziative (nella foto una di queste) per commemorare il centesimo anniversario del genocidio armeno. Alla cerimonia prenderanno parte i capi delegazione di oltre 60 Paesi, tra cui vari capi di Stato e di governo. Tra loro anche Vladimir Putin e François Hollande, leader di Paesi che hanno riconosciuto da tempo il genocidio. Non ci sarà Matteo Renzi e gli altri leader di stati che non riconoscono il massacro come genocidio. Gli Stati Uniti e Israele, così come l’Onu non hanno mai usato la parola per definire la carneficina dei turchi.
Per la Chiesa nessun dubbio. Due settimane fa papa Francesco, durante la messa domenicale aveva definito la strage armena il primo genocidio del “XX secolo”, espressione già utilizzata in passato da Giovanni Paolo II. Per protesta il premier turco Erdogan aveva ritirato l’ambasciatore turco in Vaticano.
Domenico Cappelleri