Maggio è il mese migliore per l’Italicum. Un po’ come il cocomero ad agosto e il cavolo nero a dicembre. Lo era l’anno scorso, quando a gennaio Matteo Renzi mise sul tavolo della Direzione Pd la nuova legge elettorale annunciando che «entro maggio» sarebbe stata approvata dal Parlamento. E lo è stato anche ieri: nuova Direzione convocata dal segretario democratico, nuovo voto sull’Italicum, nuova approvazione. L’annuncio, nella forma, è lo stesso dell’anno precedente. Nella sostanza, meno etereo: «Entro il 27 aprile la legge elettorale deve essere in aula e a maggio dobbiamo mettere la parola “fine”», anche a costo di «porre la fiducia».
«È giunto il momento di decidere – spiega Renzi all’assemblea riunita a largo del Nazareno – e sono contrario a ritoccare il testo». Contrario, dunque, ad andare incontro alle richieste della minoranza dem che vorrebbe invece rivedere la riforma elettorale rimasta, in sostanza, quella uscita dal defunto patto con Berlusconi e Verdini. Ora che il patto del Nazareno è rotto – sostiene l’opposizione interna al Pd – si potrebbero rivedere quelle concessioni fatte a Forza Italia, prima fra tutte “i capilista bloccati” su cui si era impuntato il leader forzista e che, a detta di alcuni, rischierebbe anche l’incostituzionalità. Una qualunque modifica – e la minoranza lo sa – comporterebbe però un rischio enorme riportando il testo, ancora una volta, al riesame del Senato. Non sarebbe solo «un gioco dell’oca», mette in guardia Renzi, ma anche «un clamoroso errore e un azzardo», visti i numeri risicati della maggioranza a Palazzo Madama. E poi, di rischi, Renzi ne corre già alla Camera, dove domani l’Italicum verrà ufficialmente incardinato dall’ufficio di presidenza della Commissione Affari costituzionali, chiamata anche a scegliere un relatore. Proprio in commissione, la minoranza dem ha la maggioranza dei seggi, con tutti i suoi big schierati, dalla Bindi a Bersani, da D’Attorre a Cuperlo. Senza l’appoggio di Berlusconi, per Renzi il rischio di «andar sotto» in commissione è più di una semplice ipotesi. L’alternativa accarezzata da Renzi prevedrebbe l’approdo direttamente in Aula scavalcando il voto dei singoli emendamenti in Commissione e il mandato al relatore.
La minoranza cerca di compattarsi ma l’invito di Civati ad un intervento unitario in Direzione non trova le necessarie sponde. Roberto Speranza cerca ancora la mediazione ma avverte che sulla via delle riforme Renzi «rischia di perdere un pezzo di Pd». Più duro il bersaniano D’Attorre che parla della fiducia “minacciata” da Renzi come di un «ricatto» nei confronti del Parlamento e accusa il premier di voler andare al voto anticipato, avanzando l’ipotesi di «voto segreto alla Camera» sull’Italicum. Pur di evitare questa riforma elettorale, l’ex segretario Bersani si dice «disposto a firmare il Mattarellum anche domani», e qui il renziano Roberto Giachetti sbotta: «Bersani l’ha avuta l’occasione di votare il Matterellum, e ha imposto, chiamando la gente al telefono, di votare contro: faccio fatica a non incazzarmi». Alza il fuoco anche Stefano Fassina che invece accusa la maggioranza del Pd di un “conformismo” simile solo a quello del Partito comunista della Corea del Nord, «come dimostrano le votazioni in Direzione» che terminano sempre senza voti contrari.
La giornata termina dunque con tutti gli esponenti della minoranza dem che escono dalla sede del Nazareno per non partecipare alla votazione, che termina con 120 voti favorevoli, nessuno contrario. D’altronde, in Corea del Nord, la minoranza non esiste.