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Salvini, Landini e Casson: i tre nomi che fanno crescere il malessere dei partiti

di Roberto Maria Rotunno16 Marzo 2015
16 Marzo 2015

o-SALVINI-facebookMatteo, Maurizio e Felice. Tre nomi qualsiasi per tre personaggi che, in ascesa nel panorama politico italiano, insidiano il premier Matteo Renzi: uno da destra, uno da sinistra e uno dall’interno dello stesso Partito democratico. Ognuno a suo modo esercita la sua influenza: qualcuno conducendo una decisa opposizione parlamentare, qualche altro trasformando uno storico sindacato “amico” in un soggetto politico alternativo al partito di maggioranza e qualche altro ancora sfidando con successo i candidati sostenuti dalla leadership nelle competizioni amministrative.

Matteo Salvini non ha più bisogno di presentazioni. Al momento è al lavoro per costruire l’alleanza con Forza Italia alle regionali e da mesi il segretario della Lega Nord occupa i palinsesti televisivi sostenendo una durissima battaglia contro le politiche del governo Renzi al grido di “stop all’invasione di immigrati”. Un personaggio semplice e spontaneo, spesso poco elegante ma capace di aggregare consensi grazie alle sue parole dirette alla pancia degli italiani. Ha chiuso la stagione della Lega a carattere locale e ha inaugurato un nuovo movimento trasversale: Noi con Salvini. Solite stoccate spesso accusate di razzismo mascherato dal canonico “aiutiamoli a casa loro”, propaganda anti-austerity e comunque fortemente contraria alle politiche economiche dell’Unione europea e grandissima attenzione ai temi della sicurezza: non a caso è soprattutto grazie agli interventi di Salvini che Graziano Stacchio, benzinaio veneto accusato di eccesso di legittima difesa per aver sparato a un rapinatore, ha ottenuto una ribalta nazionale e viene osannato come un eroe nei comizi del leghista. Un’escalation che, secondo molti osservatori politici, potrebbe trasformare Salvini nel vero leader della coalizione del centrodestra italiano. Non ha avuto nessun timore a espellere dal partito il sindaco di Verona Flavio Tosi, uno degli amministratori più in vista del Carroccio. Le prossime elezioni regionali potrebbero segnare la sua definitiva consacrazione.

Maurizio Landini, invece, ha lanciato la “coalizione sociale in difesa dei diritti” e rappresenta il dissenso che viene da sinistra del Partito democratico. La leader Cgil Susanna Camusso ha negato di aver appoggiato l’iniziativa ma il segretario Fiom non sembra intenzionato a fermarsi. In ogni caso, i dissapori tra Landini e Renzi vengono da dietro. Nei primissimi mesi dell’esperienza renziana a Palazzo Chigi, sembrava esserci feeling tra i due. Il Jobs act ha scardinato tutto: il leader della Fiom ha contestato con grandissima forza le misure previste dalla riforma del lavoro, in particolare le nuove norme sui licenziamenti le quali hanno superato l’articolo 18 e hanno introdotto una disciplina che, a detta del sindacato, riduce le tutele in nome della ripresa economica. Di grande impatto sono state le parole pronunciate da Landini durante le aggressioni subite dai lavoratori Ast di Terni lo scorso novembre a Roma: in quell’occasione il sindacalista si espresse molto duramente nei confronti del premier, invitandolo a occuparsi maggiormente dei problemi occupazionali e meno agli eventi come la Leopolda. Le ultime dichiarazioni, le intenzioni di trasformare la Fiom non in un partito ma in un soggetto politico alternativo a Renzi pongono Landini nella condizione di attrarre il sostegno di quanti, nell’universo della sinistra, non si sentono rappresentati dall’attuale governo.

Felice Casson, infine, è un po’ meno in vista dei primi due, ma non per questo non degno di nota. Ieri ha stravinto le primarie del centrosinistra a Venezia. L’ex magistrato ha superato i due sfidanti renziani Nicola Pellicani, sostenuto dalla maggioranza del partito, e Jacopo Molina. È un ex magistrato e da tempo aderisce alla corrente che fa capo a Giuseppe Civati. Posizioni fortemente critiche praticamente su tutti i punti caratterizzanti del governo Renzi: dalla riforma costituzionale all’Italicum passando ovviamenteo per il Jobs act. Ha comunque dichiarato di avere ottimi rapporti con i vertici del partito ma è inevitabile che la vittoria di un candidato non sostenuto dall’apparato crei dei grattacapi alla segreteria. Succedeva spesso quando il Pd era nelle mani di Pier Luigi Bersani ed era proprio questo uno dei maggiori argomenti critici dell’allora “rottamatore” Matteo Renzi verso la dirigenza dem.

Roberto Rotunno

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