Le forze anti-Isis guidate dagli Usa non potranno contare sui soldati turchi come “boots on the ground”. Il via libera del parlamento di Ankara per un intervento militare in Siria aveva creato molte aspettative nella coalizione, ma oggi la Nato ha respinto le condizioni poste dal ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu: la creazione di una zona cuscinetto al confine; l’attivazione e di una No Fly Zone sui cieli della Siria; la deposizione del presidente Bashar al Assad.
Combattere lo Stato Islamico non era, d’altra parte, la priorità del governo di Ankara, ben attento a non “favorire” gli altri due nemici che ha nella regione: il regime di Bashar al-Assad ed i gruppi indipendentisti curdi. Questi ultimi si sono arruolati nelle fila dell’YPG (l’Unità di Difesa del Popolo), il corrispettivo siriano del PKK, e combattono dal 16 settembre una strenua battaglia per la difesa della città di Kobane dai Jihadisti. Manca peraltro chiarezza sui rapporti tra Turchia e Stato Islamico, specie alla luce del rilascio dei 46 ostaggi turchi avvenuta il 20 settembre, per la cui liberazione non è stato ancora chiarito quali siano state le condizioni imposte dal Califfato.
La Turchia non vuole correre in soccorso dei curdi, contro i quali conduce una guerra a bassa intensità da più di trent’anni, e che potrebbero rafforzarsi se mantenessero il controllo dei territori nel nord della Siria, raggiunto nell’arco degli ultimi mesi.
Pochi giorni fa Il premier turco Erdogan ha chiarito il suo punto di vista sullo Stato Islamico e sul PKK, che considera due organizzazioni terroristiche ugualmente pericolose: “Mentre i terroristi dell’Isis seminano il terrore nel Medio Oriente, nel mio paese da 32 anni prosegue il terrore del PKK, ed il mondo non ha mai dato segno di preoccuparsene. Perché? Perché questa organizzazione terroristica non prende il nome dall’Islam”.
I turchi, quindi, non si fidano del PKK, nonostante dal 2012 fosse in corso un processo di pace nel quale si trattava per il disarmo. La principale preoccupazione della Turchia è ora che i combattenti curdi possano impossessarsi della grande quantità di armi concesse dall’occidente ai peshmerga per contrastare l’Isis.
Il leader curdo Abdullah Ocalan ha avvertito Erdogan che le trattative di pace potrebbero saltare se non verranno riaperti confini per permettere la fuga degli ultimi curdi rimasti a Kobane. Il vice presidente del primo partito turco, YasinAktay, ha però replicato che tutti i cittadini curdi sono già in salvo in Turchia, mentre a Kobane si fronteggiano due gruppi terroristici: l’Is e l’YPG.
Le possibilità che la città si salvi dalle violenze dei jihadisti del califfato sono ormai minime: “Stiamo facendo tutto quello che è in nostro potere per fermare l’avanzata dell’Isis verso la città, ma i raid aerei da soli non sono in grado di fermare i militanti islamici” ha detto mercoledì il portavoce del Pentagono John Kirby, invitando tutti a prepararsi all’eventualità che la città cada. Conquistata Kobane, lo Stato Islamico ricongiungerà le sue forze nell’est, a Raqqa, con quelle dell’Ovest, ad Aleppo, creando un corridoio strategico di oltre 100 km.
La neutralità di Ankara ha esacerbato gli animi delle comunità curde in diverse città della Turchia. In questi giorni sono esplose violente proteste per sollecitare i soccorsi alla città di Kobane, culminate con scontri tra manifestanti e polizia. Finora il bilancio è di 21 morti e oltre 150 feriti.
Raffaele Sardella