Di cibo non si è mai parlato tanto come in questi giorni. Giornali, televisione, libri, guide, blog: la cucina è dovunque protagonista e tutti sembrano padroneggiare perfettamente il vocabolario gastronomico. Ma si riflette mai sul senso delle parole che vengono utilizzate? È questo l’invito di “Mangia come parli”, il libro di Cinzia Scaffidi, vice presidente di Slow Food Italia e direttore del Centro studi dell’associazione internazionale no profit che difende il diritto a un’alimentazione buona, pulita e sicura.
Si tratta di un percorso, lessicale e semantico, dalla A di agricoltura alla Z di zappare, un viaggio attraverso 100 parole che hanno attraversato i nostri ultimi 50 anni di storia e che raccontano il mondo che ruota intorno al cibo e in particolare all’agricoltura: economia, business, consumismo di massa e frodi, pubblicità, marketing. Ma soprattutto strategie che hanno nel tempo trasformato l’agricoltura da un’azione “per avere qualcosa da mangiare” a una “per avere qualcosa da vendere”.
Prodotti di qualità, ogm, grande distribuzione, accorciamento della filiera alimentare. Temi caldi che Slow Food da sempre tratta e affronta nell’ottica di un maggiore rispetto per i contadini, per la salvaguardia dell’agricoltura e soprattutto in nome della buona tavola e della buona cucina. All’XI Forum internazionale dell’informazione per la salvaguardia del creato promosso a Napoli da “Greenaccord” Cinzia Scaffidi ha parlato proprio di questo e, prendendo spunto dal suo libro, ha spiegato quali sono i segreti del mangiar bene senza sprechi e in barba al sistema della grande distribuzione organizzata. “Bisogna acquistare solo le quantità che ci servono – ha detto al forum- cercando di comprare direttamente dal produttore oppure organizzandosi in modo da non avere filiere troppo lunghe e privilegiando più gli ingredienti e meno i prodotti assemblati o lavorati come per esempio l’insalata in busta che costa 5 volte di più e che solo in teoria ci fa risparmiare tempo”.
Conoscere poi l’origine dei cibi che mangiamo è fondamentale: “La tracciabilità è purtroppo possibile per quei cibi che hanno subito in passato dei traumi come per esempio la carne bovina per via della mucca pazza”, ha precisato la Scaffidi. I consumatori possono informarsi da soli magari chiedendo la provenienza al produttore se comprano direttamente da lui o documentandosi su come lavora l’azienda al cui marchio stanno dando fiducia.
Ma per orientarsi sulla spesa un criterio infallibile, secondo Slow Food, è quello della stagionalità e di comprare prodotti a Km0. Originariamente questa “sigla” riguardava solo le automobili ma non fu mai messa in pratica. L’idea di applicare il concetto di Km 0 al cibo si deve a Coldiretti che, una decina di anni fa, scelse questa formula per incentivare il consumo di cibo locale e di stagione non solo per favorire le produzioni italiane ma anche per indicare una via alla sostenibilità
Certo, come tutti gli slogan, l’idea di Km 0 va considerata come un’indicazione generale. “Se la interpretiamo in modo letterale, risulta infatti irrealizzabile in moltissimi casi – ha spiegato la direttrice – basti pensare alle grandi metropoli i cui centri abitati si estendono per chilometri senza incontrare alcun centro di produzione primaria, oppure ai territori devastati dall’inquinamento chimico. Bisogna quindi prestare attenzione a chi proclama che il suo cibo è a Km0 e chiedere innanzitutto di “quale” chilometro si sta parlando. Le coordinate sono importanti quanto le distanze”.
Altre volte, poi se c’è una effettiva produzione di cibo locale e di qualità, l’intreccio delle normative e dei servizi offerti da un territorio fa sì che un alimento debba sobbarcarsi qualche centinaio di chilometri nella fase di trasformazione: gli allevatori spesso devono ricorrere a mattatoi molto lontani dalle loro sedi. I salumieri o i panettieri spesso utilizzano materie prime che arrivano da lontano e questo certamente indebolisce il valore dei loro prodotti in termini di espressione del territorio e di protezione ambientale.
Insomma per Cinzia Scaffidi Km 0 va inteso più come un modus operandi che come una descrizione precisa e inappellabile. Quando si parla di prodotti a Km0 vuol dire che si scelgono sementi tradizionali, adattate ad un territorio e meno bisognose di input esterni per la loro crescita con conseguenze positive in termini di gusto e di salute. La sede dell’acquisto sarà poi il luogo stesso della produzione o un mercato di vendita diretta. Km0 è sicuramente sinonimo di qualità e affidabilità ma occorre sempre mantenere alta la curiosità e la voglia di informarsi, “per non consegnarsi- come precisa la Scaffidi- in modo asettico ad uno slogan che rischia di diventare un’etichetta affascinante su una scatola vuota, se non è sostanziato dalla nostra cultura e dalla nostra consapevolezza”.
E se ci riappropriamo del cibo come di un pezzo di cultura ne ridurremo anche lo spreco.
Maria Lucia Panucci