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I talk show sono in crisi. Santoro: «Il pubblico ha la nausea»

di Valerio Dardanelli25 Settembre 2014
25 Settembre 2014

santoro-floris-giannini-tvQuello che è stato per decenni il genere portante di molte reti televisive, sembra essere entrato in una crisi difficilmente superabile: i telespettatori sono stufi dei talk show. Lo dicono i dati, lo confermano i protagonisti. Michele Santoro infatti ha affidato a Facebook i suoi pensieri. In un lungo post, ha cantato il De Profundis al format che lo ha reso celebre presso il grande pubblico: «Non condivido la scelta di riempire all’inverosimile la programmazione di trasmissioni d’approfondimento, i cosiddetti talk, che con il venir meno nella società di grandi contrasti, e con la scomparsa dei partiti, hanno creato nel pubblico una specie di nausea e un vero e proprio rigetto». Parole dure e certamente singolari, se si considera che da domani Santoro sarà alla conduzione di “Servizio pubblico” che, come lo scorso anno, andrà in onda sul La7. Ma, tende a precisare Santoro, sarà l’ultima stagione: «”Servizio Pubblico” è stata per me un’esperienza esaltante. Per la prima volta nella storia della televisione una produzione indipendente è riuscita a fare a meno delle grandi reti generaliste e ha portato il giovedì de La7 a competere alla pari con le grandi tv. Ma ho sempre sentito la necessità di battere strade nuove e per questo motivo ho deciso che questa sarà l’ultima stagione del format». Dunque Santoro, all’interno dello stesso messaggio, dice che i talk show sono morti, si appresta a condurne uno e poi ne difende la dignità dalle ingerenze della politica: «Ai politici dovrebbe essere proibito di fare qualunque affermazione che limiti la libertà di pensiero e di informazione. Senza trasmissioni come la nostra, il racconto della crisi della Prima Repubblica e di tangentopoli non sarebbe stato lo stesso, non si sarebbe parlato di mafia, del referendum sul maggioritario, delle guerre, dei sequestri, dell’inquinamento, di Berlusconi, della Trattativa, della Lega, di Grillo e degli esiti tragici dell’austerity di Monti. I tg, con qualche eccezione, tendono a riprodurre l’ordine esistente, mentre i cosiddetti talk sono costretti a cercare filoni, storie e protagonisti diversi. Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli».

Però, almeno su un punto, Santoro sembra avere ragione. Il pubblico è stanco dei salottini del chiacchiericcio televisivo. I dati dell’auditel parlano chiaro: “Ballarò” è in ribasso, “diMartedì” in costante difficoltà. La seconda puntata del nuovo “Ballarò” ha registrato un calo di 1 milione di telespettatori, con uno share del 6,5%. Siamo lontanissimi dalle medie delle passate edizioni: 17% di share nel 2011, 16% l’anno successivo, fino al 13% registrato nel 2013. Il direttore di Rai3, Andrea Vianello, non fa drammi. Presente al Prix Italia di Torino, difende la sua scelta di sostituire Floris con Giannini: «La prima puntata di “Ballarò” ha avuto un risultato eccezionale ma sapevamo di essere solo all’inizio di un percorso. Certo l’obiettivo è fare meglio, ma siamo di fronte a una ripartenza. Il nuovo conduttore deve entrare nel cuore degli italiani, anche se già lo sta facendo. Massimo sta andando bene, ha dimostrato grande padronanza». Secondo Vianello non è ancora tempo per tirare le conclusioni: «I bilanci si fanno alla fine. “Ballarò” nel passato non ha mai avuto come concorrente un programma di informazione. Non abbiamo obiettivi di share. Il nostro è un format di successo, le condizioni ci sono, andiamo avanti».

Ma se Giannini piange, Floris non ride. Il suo “diMartedì”, in onda sul La7, deve ancora spiccare il volo. La trasmissione è passata dal 3,4% di share della prima puntata al 4,2% della seconda. Un piccolo segnale incoraggiante, che forse avrà rincuorato un Floris in difficoltà: l’avventura della sua striscia quotidiana “diciannovE quaranta” è già terminata e, data l’assenza di Lilli Gruber, l’ex mediatore di “Ballarò” è passato alla conduzione di “Otto e mezzo”, viaggiando sotto le medie della collega che superava agevolmente il 4% di share. Forse i talk show saranno morti. Ma la guerra dell’auditel è appena cominciata.

Valerio Dardanelli

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