C’è un’Italia che fatica a ripartire, c’è un’Italia che affoga tra l’incubo recessione e l’incubo deflazione, c’è un’Italia che fatica ad arrivare a fine mese e poi c’è l’Italia delle banche, che triplicano le entrate rispetto allo scorso anno e fanno registrare utili netti, nei primi sei mesi del 2014, che si attestano sui 2 miliardi di euro. A rivelare i dati è un’inchiesta di ‘Corrier Economia’ che ha confrontato le entrate di dodici tra le maggiori banche italiane scoprendo come gli istituti italiani abbiano aumentato vertiginosamente gli utili rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando le entrate si erano fermate a 661 milioni di euro.
Il dato però può essere fuorviante se si pensa che il 93% degli utili fa riferimento ai due maggiori istituti italiani, Unicredit e Intesa San Paolo. Risultati tanto positivi si devono in ogni caso a particolari attività di ‘trading’, intermediazioni finanziarie, basate principalmente sui titoli di stato italiani, i Btp. Bene, gli istituti italiani hanno beneficiato dell’apprezzamento dei titoli legato alla discesa dello spread rispetto ai Bund (titoli di stato tedeschi che fungono da riferimento a livello europeo) collocandoli sul mercato e lucrando ampi margini. Purtroppo per loro però il tempo delle vacche grasse è finito dato che il taglio dei tassi della Bce porterà ad una compressione dei ricavi da commissioni nette, con conseguente limitazione ai margini di intermediazione, tra le maggiori entrare per le banche. Ad aggravare la situazione poi ci sono i cosiddetti crediti in sofferenza, i prestiti che non vengono restituiti agli istituti e che in Italia raggiungono quota 172 miliardi di euro. Nonostante tutto ciò però gli istituti non hanno fatto granchè per ammorbidire la situazione e rendere più accessibili i prestiti a famiglie e imprese e così i due miliardi di utili dovrebbero garantire delle cospicue cedole agli azionisti, pronti a spartirsi la torta la prossima primavera.
In una situazione del genere non ci si dovrebbe meravigliare se la domanda di denaro da parte delle banche europee alla prima delle aste della Bce abbia deluso. Le condizioni imposte dall’Eurotower infatti prevedono la restituzione dei prestiti entro quattro anni, ad un tasso fisso annuo dello 0,15% (risultato dello 0,05% dell’attuale tasso di rifinanziamento più uno spread di 10 punti base). Ma dato che l’immissione di liquidità è stata fatta ad hoc per far ripartire l’economia reale la ‘conditio sine qua non’ posta dalla Bce è quella di prestare i soldi alle imprese pena la restituzione del denaro entro 2 anni. Facile intuire perché i maggiori istituti europei abbiano deciso di continuare a finanziarsi al tasso fisso dello 0,05% disertando del tutto, in alcuni casi, l’asta della Bce. Il risultato è stato un quasi flop della prima tranche di prestiti, con ‘soli’ 82,6 miliardi erogati alle banche da Francoforte e di cui il 28% agli istituti italiani.
Potremmo dire che le banche non hanno fatto incetta di prestiti della Bce perché, paradossalmente, non sanno a chi dare i soldi. Da una parte infatti temono di non vedersi restituiti i prestiti e dall’altra c’è un crescente numero di imprese che avrebbe bisogno come il pane di liquidità ma che teme di indebitarsi ulteriormente, dati i tassi d’interesse che le banche impongono lucrando in maniera neanche troppo velata su un tasso d’interesse che, per loro, arriva al massimo allo 0,15%.
“L’insuccesso del maxiprestito di Draghi – ha dichiarato Allen Sinai, attuale presidente di ‘Decision Economics’ – conferma ancora una volta che serve il quantitative easing ( il cosiddetto allentamento monetario attraverso il quale la banca centrale si pone quale acquirente di beni con denaro creato ex-novo e al fine di incentivare la crescita economica, ndr) per immettere liquidità nel sistema in modo massiccio e ad ogni livello. Negli Stati Uniti ha risolto la crisi”.
“Le condizioni non potrebbero essere più favorevoli: tassi bassi, inflazione sotto controllo, aziende che non aspettano altro che un’iniezione di fiducia. Cos’altro deve accadere?” conclude Sinai.
Forse che a rendersene conto sia Berlino, aggiungeremmo noi.
Mario Di Ciommo