Non si arrestano gli arrivi di migranti sulle coste calabresi e probabilmente, stando a quanto dichiarato dalle autorità competenti, altri ne seguiranno nei prossimi giorni. In 1023 sono approdati lunedì mattina al porto di Reggio Calabria, a bordo della nave San Giorgio della marina militare, dopo essere stati intercettati nel corso di un pattugliamento antistante il canale di Sicilia. Anche questa volta i 798 uomini, le 84 donne e i 141 minori di diversa nazionalità (siriani, eritrei, arabi, nigeriani, senegalesi, ghanesi), hanno fatto del mare il loro ponte tra le macerie della guerra e la speranza di un futuro dignitoso, lontano dalle loro terre martoriate. Tra loro anche il cadavere di un migrante recuperato in mare durante uno dei numerosi interventi effettuati, un neonato di 20 giorni, tre ustionati e una donna al quarto mese di gravidanza che ha perso il marito durante uno dei tanti viaggi della speranza.
Nel corso delle operazioni di primo soccorso coordinate dalla Prefettura di Reggio Calabria, alle quali hanno partecipato forze dell’ordine, protrezione civile, croce rossa e varie associazioni di volontariato, sono state individuate dieci persone affette da scabbia. Dopo una prima identificazione i migranti sono stati trasferiti in diverse strutture distribuiti tra Lamezia, Catanzaro, Cosenza, Crotone, mentre in 400 sono rimasti a Reggio, collocati, in molti, nella palestra di una scuola media nel quartiere sud della città. Il cortile delimitato da un cancello blu racchiude le attese di uomini e ragazzi convinti a voler lasciare l’Italia alla volta della Norvegia.
“Sono decisi a lasciare a più presto Reggio e l’Italia per continuare la loro odissea fino a raggiungere la Germania, l’Olanda o la Svezia. Pochissimi di loro parlano inglese, e una delle poche parole che persino i bambini riescono a pronunciare è ‘Suiden’” dice padre Bruno, direttore del centro diocesano “Migrantes”, coordinamento ecclesiale di pronto intervento cui fanno capo una decina di gruppi tra cui Charitas, Comunità di Sant’ Egidio e Scout.
Nel cortile della scuola, in attesa di affrontare un altro lungo viaggio, questa volta sull’Intercity diretto a Milano, alcuni giovani trascorrono i pomeriggi giocando a calcio. Donne dal viso scuro, strette nei loro abiti che lasciano intravedere solo il volto, invitano qualche giornalista ad avvicinarsi per raccontare le loro storie. Alcuni bambini, invitando ad entrare chiunque passi lungo la strada e rivolga loro un sorriso, si precipitano ad aprire il cancello nonoistante un cartello vieti l’accesso ai non autorizzati. Ma loro non lo sanno. Non parlano l’ italiano e nemmeno l’inglese. Qui, si comunica tramite gesti e sorrisi. L’accoglienza da parte dei bambini è festosa. Alcuni volontari raccolgono cumuli di calzini, paille, maglioni da mandare al macero. Indumenti che sono serviti a riparare dall’asprezza del mare gente che per nove giorni (tanto è durato il viaggio) ha affidato la propria vita all’imprevedibile sorte cucita da onde non sempre tenere.
Mohamed a Damasco faceva il giornalista. Anche lui era su quell’imbarcazione arrivata al porto di Reggio Calabria, anche lui alloggia nella palestra della scuola media in attesa di partire per la Norvegia, dove lo aspettano il fratello e “un governo che assicura a tutti dignità, un lavoro e soldi”. “È stato un viaggio terribile – racconta Mohamed. – Durante i nove giorni per mare abbiamo mangiato del riso disgustoso. Ho pagato 3mila dollari per arrivare fin qui dove sono stato accolto, con tutti gli altri, da cittadini ospitali e generosi”. Ha portato con sé due bambini, mentre gli altri tre figli sono rimasti con la mamma in Siria “per paura che il viaggio potesse distruggere tutta la famiglia”. Nella sua terra Mohamed ha perso entrambe le case, distrutte dai bombardamenti.
Jesan, invece, ha 17 anni. La sua storia è simile a quella di quasi tutti i migranti, come anche la destinazione sua e della sua famiglia. Sogna di fare il dottore in Norvegia e sorride mentre dice di essere anche lui in partenza, “Inshallah”.
Quando i giornalisti lasciano il cortile chiudendosi alle spalle il cancello blu, una teoria di visi accenna un sorriso sollevando le mani per un saluto come si fa con i vecchi amici o con persone che si conoscono da un po’. Tra qualche giorno Mohamed, Jesan e tanti come loro che sognano il nord Europa, saliranno a bordo del treno che li porterà a Milano e poi ancora oltre. E con il coraggio (o la disperazione) di chi è pronto a lasciare tutto, talvolta anche la vita, punteranno verso il loro sogno, verso un ennesimo viaggio questa volta, si spera, definitivo.
Samantha De Martin