Nella periferia estrema d’Italia, zoccolo duro di uno stivale attraversato da differenze e contraddizioni, la visita di papa Francesco ha segnato una svolta epocale nella storia della Chiesa.
L’anatema lanciato da Francesco contro i mafiosi, nel corso della visita di sabato scorso in Calabria, attraverso alcuni centri, da Castrovillari a Cassano Jonio, suona come una minaccia, ma anche come un’esortazione nei confronti di una popolazione la cui terra, “Tanto bella conosce i segni di questo peccato: l’adorazione del male e il disprezzo del bene comune”. “Questo male va combattuto – ha detto il Papa – va allontanato, bisogna sempre dirgli di no. Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati” ha tuonato Francesco.
Dopo la visita al carcere di Castrovillari dove il pontefice ha chiesto a detenuti e dipendenti del penitenziario di pregare per lui “Perché anche io ho i miei sbagli e devo fare penitenza”, Bergoglio ha incontrato il padre e alcuni familiari del piccolo Cocò Campolongo, ucciso a soli tre anni e bruciato insieme al nonno. “Prego per lui – ha detto il Papa – Mai più succeda che un bambino debba avere queste sofferenze. Mai più vittime della ‘ndrangheta”.
Poi la visita agli ammalati dell’Hospice San Giuseppe Moscati a Cassano, ai quali Francesco ha regalato un rosario, ricambiato da piccoli doni e lettere. Nel corso della visita si è registrato un piccolo fuori programma che ha costretto il Papa a chiedere l’intervento del primario del centro di cure affinché gli venisse rimossa, con una pinzetta, una piccola scheggia di legno che gli si era conficcata nel dito medio della mano sinistra. Un piccolo inconveniente che ha accresciuto l’emozione tra il personale medico del centro.
Il monito di Francesco contro la piaga della mafia è echeggiato, nel pomeriggio di sabato, in una piana di Sibari invasa da 250mila fedeli, 270 sacerdoti e da un’afa particolarmente intensa alla quale i fedeli hanno trovato riparo sotto cappelli e ombrellini. La scomunica ai mafiosi è arrivata qui, in un contesto che ricorda le parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 ad Agrigento: “Convertitevi, verrà il giudizio di Dio” aveva detto Wojtyla ai mafiosi. Due mesi dopo i corleonesi avrebbero piazzato una bomba a San Giovanni in Laterano.
“Una dichiarazione storica. Da tanto tempo aspettavamo che un Papa pronunciasse queste parole” è stato il commento del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, alle parole di Bergoglio. “Il monito di Francesco servirà ad ognuno di noi per prendere posizione: non si potrà più dire che ci vuole il certificato antimafia per sapere, in un paese di 5mila abitanti, chi è il capomafia, chi vive commettendo reati e soffocando la libertà e la dignità delle persone” ha aggiunto il magistrato.
Soddisfazione per le dure parole di Francesco è stata espressa anche da Matteo Renzi che, su Twitter, aveva commentato: “Credo che questa visita resterà nel cuore non solo dei calabresi”.
Nella terra in cui il culto dei santuari ruota talvolta intorno ad una ritualità distorta regolata dalle leggi delle cosche, in cui religione e tradizione delle ‘ndrine si mescolano con ipocrita devozione varcando l’ara della superstizione, Papa Francesco ha rotto il silenzio sostituendo all’omertà una spietata condanna.
E all’Angelus di domenica il Papa, con la stessa fermezza delle parole rivolte ai mafiosi durante la sua visita in Calabria, ricordando “la Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura che ricorre il 26 giugno, si è espresso in merito alla pratica della tortura. “Torturare le persone – ha detto Francesco – è un peccato mortale, è un peccato molto grave. Invito i cristiani ad impegnarsi per collaborare alla sua abolizione e sostenere le vittime e i loro familiari”. Alle celebrazioni di domenica era presente anche Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela. La ragazza, figlia di un dipendente vaticano, scomparsa nel nulla esattamente trentuno anni fa.
Samantha De Martin