A vent’anni dalla loro morte, uno dei giardini pubblici di Trieste è stato intitolato a quattro giornalisti caduti in guerra, Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo – uccisi da una granata in Bosnia – e Miran Hrovatin, che morì insieme a Ilaria Alpi in Somalia.
Marcello Ugolini, storico inviato di guerra per il Giornale Radio Rai e collega di Luchetta, ricorda in esclusiva per Lumsanews quei momenti: «Alloggiavo a Medjugorje, nello stesso albergo dove avevano dormito loro. Fu l’impiegata del desk a darmi la brutta notizia».
Teatro della tragedia Mostar, a una trentina di chilometri da Medjugorje. Siamo nel gennaio del ’94 e la cittadina è divisa in due, con i ponti sul fiume Neretva distrutti dai bombardamenti. Ad ovest ci sono i croati, che dal maggio dell’anno precedente bombardano i musulmani, confinati nella parte est della città, tra la montagna e il fiume. Il giornalista Marco Luchetta, l’operatore Alessandro Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo, tutti della sede Rai di Trieste, sono partiti la mattina del 28 da Medjugorje, in un convoglio della Croce Rossa internazionale, scortati dal contingente spagnolo dei Caschi blu. È l’unico modo per raggiungere, nella parte est della città, l’ospedale, dove devono girare un reportage sui “bambini senza nome”, i neonati orfani di madre o abbandonati perché frutto degli stupri etnici. «Tutti li avevano scongiurati di non andare di là (Mostar est, ndr) – ricorda Ugolini – perché i croati avrebbero sparato su tutto e tutti. Noi eravamo nella parte ovest, dove c’erano i croati. Loro sono usciti dall’ospedale e si sono avvicinati per parlare con un bimbo che giocava a pallone. Proprio in quel momento scoppiò la granata che li uccise». Nella tragedia, una nota lieta: i loro corpi dilaniati dalla granata fecero da scudo a Zlatko, il bimbo con cui stavano parlando, e lo salvarono dalla morte. «Non ricordo bene cosa è successo – ha detto, in presenza della famiglia di Marco – ma ricordo bene che quei giornalisti mi hanno protetto. Adesso vivo in Svezia, in pace, e non voglio che nessun bambino muoia più per una guerra».
Dall’alto della sua ventennale esperienza di inviato chiediamo a Ugolini come può un giornalista, in questi frangenti, conciliare sicurezza e buona informazione . «La sicurezza – ci dice in maniera franca – devi dartela da te e la paura è il denominatore comune per salvare la pelle. È bene spingersi fino a un certo punto, la curiosità personale la si soddisfa da solo. Ad un certo punto bisogna fermarsi, anche per tutelare gli operatori che lavorano con te, e non tutti i colleghi, purtroppo, ci sono riusciti».
Antonino Fazio