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Rapita in Siria. Susan Dabbous racconta la sua odissea al Festival del giornalismo

di Maria Lucia Panucci02 Maggio 2014
02 Maggio 2014

Susan DabbousSusan Dabbous, giornalista freelance italo-siriana, (foto) viene rapita in Siria insieme ad altri tre componenti della troupe della Rai, Amedeo Ricucci, Andrea Vignali ed Elio Colavolpe. E’ il 3 aprile 2013, quando nel villaggio cristiano di Ghassanieh, vicino Latakia, davanti ad una chiesa sconsacrata, il gruppo viene fermato dai combattenti islamisti di Jabhat al Nusra, affiliato ad Al Qaida. Accusati di aver ripreso luoghi “sensibili”, i quattro vengono condotti presso un’abitazione che sarà il loro carcere per undici, interminabili giorni. Oggi Susan, l’unica donna del gruppo, racconta questa drammatica esperienza attraverso il libro “Come vuoi morire?”. Un volume scritto di getto, subito dopo la liberazione, dove l’autrice, oltre che ricostruire la cronaca di quei giorni, non rinuncia a raccontare i suoi pensieri più intimi. La Dabbous ha presentato il libro ieri mattina al Festival internazionale del giornalismo a Perugia con Richard Colebourn della BBC, Maria Gianniti, inviata per Radio RAI e Andrea Iacomini, portavoce UNICEF Italia. “L’idea – ha racconta Susan – è nata dall’esigenza di rispondere a tante domande che mi sono state rivolte su quei giorni. Sono stata sequestrata nello stesso posto dove sono nata 31 anni fa”.
La giornalista, originaria di Aleppo, va oltre la descrizione del contesto siriano, terra di nessuno contesa da governo, jihadisti e briganti comuni. E’ lei a destare interesse, donna siriana prigioniera di altri siriani, disprezzata perché nata nel mondo giusto, quello siriano appunto, e cresciuta in quello sbagliato, occidentale e cattolico. Susan aveva capito subito che non si trattava di un semplice arresto: “Sotto il silenzio di quella chiesa sconsacrata siamo stati arrestati da Jabhat al-Nusra che conoscevo perché avevo scritto di loro poco tempo prima – ha spiegato – E proprio perché sapevo chi erano, avevo capito che quello che stava avvenendo non era un semplice arresto ma un rapimento”. Quattro di quei giorni terribili Susan li ha trascorsi con Miriam, la moglie di uno dei combattenti islamisti. “È stata una prigionia anomala – ha aggiunto – perché avevo tanto da mangiare, potevo parlare e mi potevo lavare”. L’islam vissuto con la sua pigionia non è stato quello dell’infanzia: “Era un islam superstizioso quello dei miei rapitori – ha spiegato – Venivo rimproverata quando toccavo il cibo con la mano sinistra, cosa che in casa mia si è sempre fatto. Mi era stato detto che le donne non potevano vedersi nude, quando invece d’estate da piccola passavo pomeriggi all’hammam con le mie cugine. Era un’islam diverso, chiuso”. La prigionia l’ha portata poi a confrontarsi con la morte ma grazie ad un accordo segreto con i servizi segreti italiani l’incubo è durata poco.
Richard Colebourn della BBC parla della visione di Susan come di un’interessante punto di vista dall’interno, nonché inconsueto nel disegnare i rapporti con i gruppi più minacciosi: “Le difficoltà degli spostamenti in quei luoghi, la mutevolezza e l’instabilità delle situazioni sono le incognite per i reporter in Siria – ha spiegato – il vantaggio della BBC sta nell’aver iniziato molto presto la copertura della guerra, per mantenere una presenza costante nel corso degli anni”. Un’emergenza, quella della guerra in Siria, che è anche umanitaria, soprattutto quando si pensa ai più piccoli. “Dei 6milioni di siriani sfollati il 50% è rappresentato da minori”, ha affermato Andrea Iacomini, portavoce di UNICEF Italia.
Ma qual è il futuro della Siria? Richard Coleborun è pessimista al riguardo mentre Susan Dabbous lancia un messaggio di speranza: anche qui finirà la guerra un giorno. Bisognerà solo capire quando.

Maria Lucia Panucci

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