WASHINGTON – Un colpo di spugna, o per meglio dire di escavatrici, a un simbolo della storia contemporanea statunitense. In seguito alle pressioni dei repubblicani al Congresso, il 10 marzo alcuni operai hanno iniziato a cancellare la grande scritta gialla “Black Lives Matter”, dipinta sulla storica 16th Street a Washington di fronte alla Casa Bianca in seguito all’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia il 25 maggio 2020. Il video dei lavori di cancellazione della scritta è stato condiviso sul social Truth dal presidente americano Donald Trump.
Il mito del melting pot
A primo impatto, l’azione di smantellamento della Black Lives Matter Plaza potrebbe sembrare apparentemente in contraddizione con alcune delle dichiarazioni che lo stesso Trump aveva rimarcato con forza durante il suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca. Tra i destinatari dei ringraziamenti del presidente, infatti, ampio spazio è stato dedicato alla comunità afroamericana, “per l’enorme diffusione di amore e fiducia dimostrata col voto”.
Il mito rilanciato da Trump, che aveva omaggiato anche la comunità ispanoamericana e quella asiatica, è quello di un melting pot tutto statunitense. Gianluca Pastori, professore alla Cattolica di Milano di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa, spiega che “Trump ha rilanciato il mito delle opportunità che sono di chi le sa cogliere, indipendentemente che si parli di un americano bianco, immigrato, ispanico”. Tuttavia, sottolinea Pastori, “questi americani devono accettare le regole del gioco americano, un gioco dominato in qualche modo dalla componente bianca della popolazione”.

Il consolidamento dell’identità tradizionale statunitense
In considerazione di questa traiettoria sociale, la scelta di rimuovere la scritta “Black Lives Matter” risulta coerente al processo di consolidamento dell’identità Usa portato avanti dall’amministrazione Trump. Secondo Gianluca Pastori, “le parole “Black Lives Matter” si inseriscono poco in un’immagine tradizionale degli Usa che il presidente vuole restaurare”. A maggior ragione, è il caso di sottolinearlo, se quelle parole si trovano a breve distanza dal luogo simbolo del potere a stelle e strisce.
La costruzione di una “nuova” memoria collettiva
L’atto di rimozione voluto dall’amministrazione repubblicana si configura come l’attacco a un simbolo, a una delle più recenti tappe della memoria collettiva Usa. Pastori sostiene che “la memoria collettiva che Trump sta tentando di costruire è quella di uno Stato che vuole tornare ad essere grande”. In opposizione alla precedente amministrazione democratica e alle lobby ad essa legate, gli Stati Uniti si sarebbero allontanati dalla propria traiettoria di grandezza, ragione per cui il “Make America Great Again” 2.0 di Trump è teso “a un ritorno degli Stati Uniti della frontiera e del mito di John Wayne”, dice Pastori.
La cancel culture colpisce ancora
La scelta di rimuovere un passato ritenuto in qualche modo sconveniente ricalca, tra l’altro, una pratica criticata e denunciata dagli stessi repubblicani durante l’amministrazione Biden, quella della cancel culture. Una vera e propria interruzione del dialogo con un passato che per motivi etici non si approva e di cui la rimozione della statua di Thomas Jefferson dalla Camera di City Hall nel 2021 è stata un esempio paradigmatico. In tal senso, Pastori parla di “due fenomeni speculari”. Infatti, nonostante la cancel culture sia stata tradizionalmente affibbiata alla linea ideologica del partito democratico, il professore sottolinea come “una solida cancel culture di destra che mira a cancellare una serie di testi, libri, autori, considerati unfit rispetto ai valori americani, è sempre esistita e, evidentemente, continua a resistere”.