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Intervista a Emilio Barbarani: una storia vera della diplomazia italiana

di Annalisa Cangemi30 Maggio 2012
30 Maggio 2012

Si è tenuta ieri pomeriggio presso l’associazione culturale la “Casetta Rossa”, la presentazione del libro di Emilio Barbarani, “Chi ha ucciso Lumi Videla” (Mursia, 2012). A moderare l’incontro lo scrittore Erri De Luca. L’ex ambasciatore Barbarani ha raccontato alcuni episodi del libro, ambientato nel 1974 in Cile, un anno dopo il golpe di Pinochet, quando fu inviato in missione come consigliere dell’ambasciatore Tomaso De Vergottini. Nessuno dei due diplomatici era accreditato, in quanto il governo italiano non aveva riconosciuto la dittatura cilena. Ma insieme scrissero una delle pagine più eroiche della diplomazia italiana: «Ricordo tutto in maniera vivida, nonostante sia passato molto tempo. Quando rischi la pelle e vivi istanti di pura adrenalina è naturale che rimanga tutto impresso nella memoria». Barbarani non si tirò mai indietro, neanche quando il capomissione gli chiese di lasciare la camera d’albergo in cui alloggiava per andare a dormire con i dissidenti nella residenza, a cui l’Ambasciata d’Italia aveva concesso asilo politico: «Quello fu uno dei momenti più drammatici. Ci guardammo in silenzio per qualche minuto, De Vergottini e io. Accettai, ma lo convinsi a concedermi di girare armato…non volevo fare il martire». Barbarani, infatti, pur essendo un diplomatico, fu costretto ad improvvisarsi “agente segreto”, per permettere a centinaia di oppositori politici di lasciare il Paese.
Nel periodo che ha trascorso a Santiago che rapporti c’erano con le altre sedi diplomatiche?
«Ogni Ambasciata si muoveva autonomamente. Con questa differenza: noi italiani abbiamo avuto un totale di 750 rifugiati. Gli altri, quelli che si sono impegnati di più, ne hanno ospitato al massimo qualche decina. Tutto il carico è stato sulle nostre spalle italiane».
Aveva cognizione di questa situazione in quel momento o l’ha saputo successivamente?
«Eravamo informati sia dalla stampa sia dai contatti che avevamo tra Ambasciate, ma non c’era una collaborazione istituzionale. Ognuna pensava per sé».
Il Ministero degli Esteri italiano vi lasciò carta bianca. Lei e l’ambasciatore De Vergottini non potevate richiedere un indirizzo preciso dalla Farnesina?
«Spesso noi ci rivolgevamo al Ministero degli Esteri chiedendo istruzioni. Ma quanto più drammatiche erano le istruzioni che richiedevamo tanto più marcato era il ritardo con cui arrivavano. La maggior parte delle volte non arrivavano per niente. Qualcuno ha sostenuto che fosse una precisa linea politica. È un’ipotesi attendibile».
Il governo italiano sapeva cosa stavate facendo in quei due anni?
«Il governo sapeva abbastanza, ma non tutto. Ciò che narro nel libro non è stato scritto a Roma perché non era politicamente spendibile. Se lo avessi detto allora, probabilmente la nostra Ambasciata sarebbe stata chiusa e i nostri rifugiati sarebbero stati abbandonati al loro destino».
Ha mantenuto contatti con le persone che ha aiutato ad espatriare? Ha avuto modo di rincontrale nel corso della sua vita?
«Non ho avuto notizie di nessuno, salvo uno o due casi. Purtroppo questa è una ferita che porto, non ho mantenuto i contatti con loro e non ho ricevuto nemmeno un “grazie”».

Annalisa Cangemi

 

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