Luna Rossa lancia la sfida a Ineos Britannia nella finale di Louis Vuitton Cup, in programma a Barcellona da giovedì 26 settembre con i primi due round. Tredici regate in totale: vince chi arriva per primo a sette. In palio la possibilità di sfidare Team New Zealand per la conquista dell’America’s Cup. Mauro Pelaschier, nel 1983 e nel 1987 al timone di Azzurra (prima barca italiana nella storia della competizione), racconta a Lumsanews le sue sensazioni in vista della finale, ripercorrendo alcune tappe della sua carriera.
Pelaschiar, come sta vivendo da spettatore la Louis Vuitton Cup?
“Con molto interesse e gioia, in particolare per la solidità di Luna Rossa nel suo complesso, dal livello sportivo a quello progettuale e dirigenziale. Siamo alla sesta partecipazione del team e nel tempo sono stati messi in campo i migliori sportivi e dirigenti. I risultati testimoniano questo grande impegno”.
Le sue previsioni in vista della finale tra Luna Rossa e Ineos Britannia?
“I timonieri delle due imbarcazioni si conoscono alla perfezione. Il mezzo e le condizioni atmosferiche faranno la differenza. Entrambe le barche sono tarate per una condizione media del mare di Barcellona: l’intensità del vento e la presenza di onde saranno decisive, così come la partenza, viste le dimensioni raccolte del campo di regata”.
Chi parte favorito?
“Ineos al momento non ha sbagliato una partenza, mentre Luna Rossa deve migliorare sotto questo aspetto. Entrambe le imbarcazioni sono molto performanti, quindi può succedere di tutto”.
Quali sono le grandi differenze tra un monoscafo come Luna Rossa e la sua Azzurra?
“Cambiano l’idrodinamica e l’aerodinamica. In breve, noi toccavamo l’acqua, le nuove imbarcazioni volano sulla sua superficie. In ogni caso, che si parli di scafo o di foil, la barca resta fondamentale e determina la vittoria finale per l’80 per cento”.
Ora questo sport riceve anche una copertura diversa rispetto al passato.
“Certo, la televisione lo ha reso molto più divertente da guardare. Nel 1983 si faticava a trovare un’immagine di Azzurra, adesso sullo schermo vediamo pure i limiti del campo di gara. Un tempo una singola regata durava dalle due alle tre ore, quindi era molto noioso da vedere. Poi non c’era l’arbitraggio, noi interpretavamo il regolamento ed eventualmente riportavamo le infrazioni dell’avversario a una commissione dopo la sfida”.
La troppa tecnologia a bordo rischia di rendere meno romantica la vela?
“No, il romanticismo rimane. Qualsiasi uomo che sfida se stesso, i suoi avversari e la natura alimenta questo aspetto.”
Cosa pensa dell’impiego dei ciclisti al posto dei grinder?
“Una cavolata mostruosa. Questi poveri ragazzi danno l’anima e non capiscono neanche quando arrivano al traguardo, perché non vedono nulla. È una sensazione orribile, niente a che vedere con il vero ciclismo”.
Il suo primo ricordo legato alla vela?
“Nasco in una famiglia di velisti, sono stato partorito al Circolo velico di Monfalcone. Seguire la tradizione di famiglia è stato facile. Mio nonno Francesco era mastro d’ascia, papà Adelchi e mio zio Annibale grandi velisti plurititolati, campioni olimpici”.
È diventato campione italiano juniores a 15 anni, un talento precoce.
“A sei anni già giravo per mare da solo, senza istruttori”.
Quali sensazioni provava?
“Amore assoluto verso la barca, che in quel momento era il mio giocattolo”.
Con quali ambizioni è cresciuto?
“L’obiettivo era partecipare alle Olimpiadi almeno tre volte, perché mio padre e mio zio ne avevano fatte due. Alla prima, in Messico, avevo 18 anni ed ero una riserva, poi Monaco 1972 e Montreal 1976. Avrei potuto continuare, ma a 27 anni, senza famiglia e un lavoro stabile, mi sentivo imperfetto per gli standard dell’epoca e iniziai a lavorare, prima nelle velerie di Monfalcone, poi in un cantiere nautico. Ho imparato a disegnare e costruire barche senza studiare”.
Poi la svolta, la prima Coppa America.
“Cino Ricci (lo skipper di Azzurra, ndr), mi vide regatare e si appassionò. Mi sono gettato a capofitto in questa nuova avventura. Avevo sentito parlare della Coppa America da piccolo, nei racconti di mio padre e mio zio. Nel mio immaginario, sembravano delle battaglie tra pirati. Allora ho scelto di assecondare la mia vocazione”.
Gianni Agnelli, armatore di Azzurra, le disse qualcosa in particolare?
“Non ho mai approfondito la sua conoscenza. In Sardegna si tuffava dal suo elicottero e noi lo ripescavamo. Ogni tanto si metteva al timone e voleva guidare Azzurra. Dopo il fallimento del 1987, anche lui si stufò del progetto”.
In Coppa America ha partecipato alla sua prima match race?
“Sì, in Italia non eravamo abituati, perché gareggiavamo nelle regate di flotta. Abbiamo imparato come funzionasse direttamente a Newport, al via della competizione”.
Cosa cambia con le regate di flotta?
“L’interpretazione del regolamento. In una match race bisogna mettere subito in difficoltà l’avversario, facendolo scattare dalla parte sbagliata. Nelle regate di flotta le probabilità di rimontare anche dopo lo start sono alte e anche un secondo posto è un gran risultato, non certo una sconfitta”.
Il ricordo a cui è più legato?
“La presentazione olimpica nello stadio Azteca, quando avevo 18 anni. A ricordarlo, mi viene ancora la pelle d’oca”
Ha qualche rimpianto?
“Non dormo di notte perché ho fatto molte cavolate, ma il più grande rimpianto sono le olimpiadi del 1976, quando arrivai nono. Allora non si poteva usare il proprio mezzo, quindi ho gareggiato con lo stesso finn degli altri atleti. Pesando intorno ai 78 chili (dieci in meno rispetto agli altri), ho faticato. Con la mia barca avrei fatto fronte a questa mancanza”.
Cos’è il mare per Mauro Pelaschier?
“La mia vita e la vita in generale, perché l’acqua è indispensabile per il nostro pianeta. In qualità di ambassador di One Ocean Foundation, nelle scuole spiego ai più piccoli l’importanza di tutelarlo”.
Con la barba e i capelli lunghi incarna il modello del marinaio, glielo dicono spesso?
“Sì (ride, ndr). Sono cresciuto con i capelli al vento e la barba l’avrò tagliata due volte in vita mia. Fanno parte del mio personaggio e mi aiutano a essere identificato come uomo di mare, ma anche di montagna, visto che spesso mi hanno scambiato per Reinhold Messner”.