All’estero la crisi di Gaza, il conflitto in Sudan, l’instabilità libica. All’interno l’economia sull’orlo del collasso, lo scontento della popolazione, i flussi migratori che attraversano il Paese. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi deve gestire i dossier nazionali e internazionali mantenendo rapporti funzionali con diversi partner spesso in contrasto fra loro e scongiurando il rischio di aumentare l’instabilità del Paese. Luciano Pollicheni, analista geopolitico per la Fondazione Med-Or e collaboratore di Limes, spiega a Lumsanews quali sono le sfide che il governo egiziano deve affrontare.
Che impatto ha avuto il conflitto in corso tra Israele e Hamas sull’Egitto?
“Dopo Israele, lo Stato più danneggiato dall’attacco del 7 ottobre è l’Egitto. Se prima Al-Sisi ha sfruttato a suo favore la possibilità di essere l’interlocutore privilegiato dei gruppi palestinesi – potendo garantire i loro diritti e al contempo evitare escalation di violenza verso Israele – il 7 ottobre ha stroncato questa forma di diplomazia. L’Egitto si è trovato in una strettoia: vuole rimanere il garante dell’autorità dei palestinesi ma non può permettere che Israele proceda allo sfollamento dei gazawi nel Sinai. Tale sviluppo comporterebbe il rischio dell’ingresso di membri di Hamas nel Paese, con il pericolo di una riattivazione dei Fratelli Musulmani”.
D’altra parte il progetto della cosiddetta grande Gaza può anche essere sfruttato da Al-Sisi, consentendogli di alzare la posta in gioco nei negoziati internazionali sui rifugiati palestinesi.
“Sicuramente sì. La gestione della crisi di Gaza si aggiunge a quella del Sudan e a quella libica, a cui si somma la questione dei flussi migratori che attraversano il Paese. Il fatto di stare fronteggiando queste crisi è una pedina nelle mani di Al-Sisi, che può chiedere denaro ai partner internazionali per farlo. Non è un caso che durante le elezioni di dicembre la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen si trovasse in Egitto, ad annunciare una nuova partnership bilaterale che prevede nove miliardi di euro di investimenti nel Paese”.
A proposito di elezioni, perché Al-Sisi ha deciso di anticiparle?
“La popolazione reputa il governo incapace di gestire le questioni essenziali, in primis quella dell’inflazione. Ma la scollatura tra governo e piazza, con un po’ di cinismo, non rappresenta un problema insormontabile, perché il dissenso si può reprimere. La questione è che l’unica ricetta possibile sarebbe aumentare le divisioni fra i decisori, togliendo agli oligarchi alcuni dei loro benefici. Le elezioni, vinte con oltre l’89% dei consensi (senza partiti di opposizione rilevanti), hanno visto un’affluenza quasi al 69%. Così il presidente può vantare il risultato come dimostrazione della legittimità del suo governo”.
Un’altra delle critiche rivolte ad Al-Sisi è quella di aver lanciato megaprogetti che vengono visti come uno spreco di risorse.
“I progetti come Sisi City nascono con delle motivazioni architettoniche: nel caso della Nuova capitale amministrativa il suo compito sarebbe essere l’alternativa a un Cairo troppo ingolfato. In realtà la vera funzione è quella di calamita per attrarre investimenti internazionali. Alcuni fenomeni internazionali come la pandemia o la guerra in Ucraina hanno drenato gli investimenti dall’estero, contribuendo alla crisi del Paese”.
Che ha stretto rapporti anche con Paesi che non appartengono all’Occidente.
“Dal primo gennaio l’Egitto è diventato membro dei Brics. Inoltre, conscio della necessità di riattivare gli investimenti diretti esteri, ha cominciato a valutare potenziali partner anche in Asia, trovandoli soprattutto in Cina e India. Prendendosi quindi alcune libertà rispetto all’orbita dell’impero americano”.