“Quanto hai pagato le tue scarpe? E il telefono?”. È una curiosità genuina quella di Saladdin, mercante di Qena, città lungo il Nilo nel centro dell’Egitto. Ascoltando la risposta, scherza: “Io con gli stessi soldi ci compro una casa”. Lo dice in italiano, mentre prova a convincerci a comprare una borsa o un vestito tradizionale, e quando capisce che non vale la pena insistere si rivolge in spagnolo ad altri visitatori. Viene da Esna, più a sud, dove saper parlare la lingua dei turisti “francesi, tedeschi, ma anche russi e cinesi”- ci spiega – è la priorità. Sono tanti, infatti, gli egiziani che dipendono dal turismo, che nel 2022 rappresentava quasi l’8% del Pil del Paese. Introiti già intaccati prima dalla pandemia, poi dalla guerra tra Russia e Ucraina, da cui proveniva il 30% degli stranieri in viaggio. “E da quando è scoppiato il conflitto in Palestina non vengono più nemmeno gli europei, hanno paura che il Paese non sia sicuro”, si lamenta Hodari che vende statuette nel suq del Cairo. Dello stesso parere è Ashraf, che offre tour panoramici nel sito delle piramidi di Giza. Ci insegue, ci prega di salire sul suo carretto, poi rinuncia: “E pensare che fino a tre mesi fa erano i turisti che rincorrevano me”.
In crisi tra le crisi
Con la guerra nella Striscia di Gaza, l’Egitto è circondato da epicentri di instabilità: a ovest la Libia, nel caos dal 2011, l’anno dell’uccisione di Moammar Gheddafi; a sud il Sudan, dove dallo scorso aprile è in corso una guerra civile che ha portato a scappare verso l’Egitto oltre 300mila rifugiati. Secondo Sameh, un venditore di papiri in un negozio di Giza, “la popolazione egiziana è dalla parte dei palestinesi, ma di quello che accade nella Striscia i media non parlano”. “E voi che cosa ne pensate?”, chiede inaspettatamente Mostafa quando ci vede entrare nella sua piccola cartoleria nel centro del Cairo. Definisce “terribile” quello che sta accadendo, prima di lasciarsi sfuggire che “sembra una guerra americana”. Anche per questo “l’Egitto non ha il potere di mettere fine alla guerra”, che “costa cara agli egiziani”. Sospira: “Il nostro problema sono sempre i soldi”.
L’economia al collasso
Nel Paese quasi un terzo della popolazione vive con un reddito pari a due euro al giorno. L’inflazione su base annua è oltre il 35%, una cifra che paradossalmente conforta gli egiziani, che la vedono scendere rispetto al record del 40% toccato in estate. Il debito pubblico è pari al 90% del Pil, la sterlina egiziana ha perso metà del suo valore nell’ultimo anno. Per questo gli egiziani preferiscono farsi pagare in dollari o in euro.
Il forte bisogno di liquidità e di moneta estera ha spinto il governo di Abdel Fattah Al-Sisi ad approvare un programma di razionamento energetico che prevede l’interruzione dell’elettricità per due ore al giorno su tutto il territorio. Secondo Mohammed – che ha studiato egittologia e ha vissuto 13 anni in Germania, ma lavora nel negozio di souvenir del Museo di Luxor – il motivo è che “bisogna compensare i consumi eccessivi dell’estate”. La sua idea corrisponde alla versione ufficiale, ma solo in parte alla realtà: il programma di blackout serve a ridurre il consumo nazionale di energia per aumentare le quote destinate all’esportazione, su cui il governo punta per risollevare l’economia. Soprattutto da quando i Paesi occidentali hanno escluso la Russia dal mercato energetico internazionale, costringendosi a cercare partner alternativi.
Ma il conflitto tra Mosca e Kiev ha rappresentato un problema per l’Egitto non solo per le ripercussioni sul turismo: nel 2020 il Cairo importava l’86% del grano da Russia e Ucraina, ingrediente essenziale per i prodotti alimentari di base. Come il pane – aish in arabo, la stessa parola che si usa per dire “vita” -, uno dei beni sovvenzionati dallo Stato, per cui nell’ultimo anno ha speso 2,6 miliardi di dollari. Troppi per le casse del Paese, che in sei anni si è rivolto per sei volte al Fondo monetario internazionale. L’Fmi, però, condiziona i prestiti, chiedendo al Cairo misure di austerità fiscale, ma anche la graduale eliminazione dei sussidi sui beni di consumo e la privatizzazione delle società statali e militari. Richieste che scontenterebbero tanto la popolazione quanto gli oligarchi: un incubo per Al-Sisi.
Le elezioni anticipate
È in questo contesto che si inseriscono le elezioni presidenziali, previste per maggio 2024 e anticipate a dicembre 2023. L’obiettivo di Al-Sisi era evitare il crollo dei consensi (in vista di una stretta economica necessaria per far fronte alla crisi) ma anche confermare la sua legittimità. Un mese dopo il voto, i suoi manifesti elettorali troneggiano ancora sui palazzi di tutto il Paese: il presidente sorride guardando verso l’orizzonte, in alcuni indossa un paio di occhiali da sole, in altri fa sport. Nei supermercati una sua foto, con l’espressione rassicurante, si trova all’interno del depliant delle offerte: “Al-Sisi presidente, dalla parte degli egiziani”, “La provincia di Hurghada sostiene Al-Sisi”, si legge.
I progetti faraonici
Da quando nel 2013 ha preso il potere, Al-Sisi ha investito massicciamente in grandi opere infrastrutturali. L’obiettivo è sia poter vantare la modernizzazione del Paese, sia attrarre investimenti dall’estero (dalle monarchie del Golfo ma anche dalla Cina). Circa il 70% degli investimenti esteri sono infatti destinati al settore dell’edilizia, storicamente in mano alle forze armate. L’afflusso di capitali rafforza così il sostegno per Al-Sisi all’interno dell’élite di potere.
Il megaprogetto più eclatante è la Nuova Capitale amministrativa, anche nota come Sisi City, una cattedrale nel deserto distante 45 chilometri dal Cairo. La città, nei piani raggiungibile grazie a una monorotaia ad alta velocità, è costata finora almeno 60 miliardi di dollari. Ma “le strade non si mangiano”, polemizzano gli egiziani. Nella futura Capitale saranno concentrati gli edifici governativi. Tra le motivazioni non ufficiali anche quella di scongiurare rivolte popolari, come la Primavera araba del 2011, quando i manifestanti raggiunsero il palazzo presidenziale occupato da Hosni Mubarak costringendolo a dimettersi. Rifugiandosi lontano dal popolo, Al-Sisi conta di risparmiarsi un simile destino.
Ai seguenti link le interviste a Luciano Pollicheni, analista geopolitico per la Fondazione Med-Or e collaboratore di Limes e Gamal Zekrie segretario generale dell’organizzazione umanitaria “Sheperds and mothers of light”.