L’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge 6 del 2004, si basa sugli studi e sul lavoro del giurista Paolo Cendon, ordinario di diritto privato all’Università di Trieste. Con LumsaNews approfondisce le ragioni che ispirarono l’istituto e la sua attuale validità.
Il suo lavoro viene considerato la base dell’amministrazione di sostegno. Da dove nasce l’esigenza di questo istituto?
“Con la legge 180 del 1978 si impose la chiusura dei manicomi e si regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio. I civilisti iniziarono a chiedersi come regolamentare la tutela delle persone fragili e le questioni civilistiche legate alla malattia di mente. Per questa ragione nel 1986 organizzai un convegno a Trieste al quale invitai altri colleghi civilisti, psichiatri e operatori socio-psicologici per valutare nuovi istituti giuridici per la protezione dei più fragili alla luce dei cambiamenti in atto nel Paese. Si cercò di immaginare una figura meno aggressiva e totalitaria, più vicina alla persona. Al termine del convegno fu redatta una bozza, in cui per la prima volta utilizzavo la parola amministrazione di sostegno”.
Nel testo della legge che ha poi introdotto nel codice civile la figura dell’amministrazione di sostegno ci sono stati dei cambiamenti sostanziali rispetto al suo lavoro?
“In alcuni passaggi. Fu dettagliata e precisata, per esempio, la parte procedurale, diventata poi molto più articolata e minuziosa. Ma la parte sostanziale è la stessa e riflette lo spirito di quello che io ho scritto: non togliere la capacità di agire, ma limitare alcuni diritti della persona fragile per proteggerla. È complesso trovare un bilanciamento tra la protezione della persona da comportamenti potenzialmente lesivi e la sua libertà”.
Secondo lei, vista anche la fotografia che ci restituisce la cronaca, ci sono degli abusi o comunque degli usi illegittimi dell’istituto e della carica di amministratore di sostegno?
“Ci sono degli amministratori di sostegno che rubano i soldi dei loro beneficiari, indubbiamente questi casi esistono, ma non sono la maggioranza. Il vero problema è che l’istituto ha avuto troppo successo, è cresciuto troppo. Oggi sono circa 400mila coloro che in Italia ne beneficiano e la macchina della giustizia fa fatica a stare dietro a questi numeri. Il vero rischio è che la persona non sia più al centro della procedura, che non la si guardi più con l’empatia necessaria”.
Quindi andrebbe ripensato l’istituto o le sue modalità di attuazione? Oppure, più semplicemente, rendere più efficiente la macchina della giustizia?
“A mio parere la legge va bene così com’è. L’unica cosa importante sarebbe abrogare l’inabilitazione e l’interdizione, ma per l’amministrazione di sostegno sarebbe utile solo un regolamento di attuazione per facilitare il lavoro dei tribunali. Sono necessari più giudici, cancellieri, un maggior coinvolgimento dell’attività amministrativa. Serve un approccio reticolare con tutte le risorse del territorio che devono essere coordinate in modo sinergico per la gestione della fragilità della persona. La mancanza di un sistema, in questo senso, è un grosso problema. Sarebbe necessario un progetto nazionale che preveda la cura della persona fragile sul territorio attraverso un organismo complesso. Ci sarebbe bisogno di sportelli dove la persona viene ascoltata e accolta dalle strutture pubbliche in cui incontra una serie di figure professionali (sessuologi, psicologi, psichiatri) atti a sostenerla. Non serve cambiare la legge, ma creare una rete di supporto”.
Ci sono alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo molto critiche dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. Ritengono che, in alcuni casi di ricovero del beneficiario contro la sua volontà, sia lesivo dell’articolo 8 della Cedu.
“Alcune di queste sentenze trattano la questione in modo superficiale, in quanto giudicano solo sulla base di alcuni elementi, senza tener conto di tanti particolari. Il problema dei ricoveri contro la volontà del beneficiario, tuttavia, esiste. Prima di decidere del ricovero di una persona bisognerebbe pensarci a lungo. Spesso, intorno ai casi di abusi dell’amministrazione di sostegno c’è tanto sensazionalismo mediatico, ma la maggior parte dei giudici, pur sottoposti a pressioni, agisce correttamente”.