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Intervenire prima, intervenire meglio. L’importanza della Valutazione Multidimensionale per la diagnosi e la cura del morbo di Alzheimer.

di Marcello Gelardini21 Marzo 2013
21 Marzo 2013

L’Alzheimer rappresenta una delle emergenze socio-sanitarie più urgenti del nostro tempo. Il Ministero della Sanità ha attivato da alcuni anni il “Progetto Cronos”, un stimolo alla ricerca per il potenziamento e la riqualificazione  dell’assistenza ai pazienti affetti dal morbo, attraverso il quale si sta cercando di sviluppare uno studio statistico su larga scala; un passaggio di fondamentale importanza in assenza di altri punti di riferimento. In questo quadro, il ruolo svolto dalle Unità di Valutazione Alzheimer (U.V.A.) diventa d’importanza strategica.
Prendere in tempo la malattia significa rallentarne il decorso e consegnare nelle mani dell’anziano la possibilità d’invecchiare in maniera dignitosa. Perché l’Alzheimer, se non viene affrontato con gli strumenti giusti, diventa inesorabile: al deficit di memoria e al disorientamento spazio-temporale della fase iniziale, si aggiungono ben presto difficoltà di linguaggio, di ragionamento e di coordinazione che culminano nel giro di pochi anni nella perdita totale dell’efficienza cognitiva e dell’autosufficienza; in pratica, una disabilità pressoché totale.

L’Unità fa la forza. Fortunatamente, però, proprio grazie al lavoro delle U.V.A abbiamo oggi la possibilità di riconoscere dei sintomi che fanno scattare un campanello d’allarme: sintomi cognitivi, come lievi disturbi della memoria o difficoltà ad articolare discorsi complessi; sintomi psichici, quali ansia e depressione; sintomi comportamentali, che vanno dai disturbi alimentari a quelli motori.
Molteplici, dunque, le aree da esplorare (attenzione, memoria, orientamento, linguaggio, comportamento). Numerosi, di conseguenza, i test messi a punto nel tempo per “entrate” il più possibile nella mente del paziente e indagare su una malattia ancora troppo sconosciuta. Strumenti che hanno permesso di riscontrare come, i pazienti con deficit cognitivi di entità tale da non interferire con le attività della vita quotidiana, nel 10-15% dei casi sviluppa la demenza in 1 anno; probabilità che raggiunge il 50% nei quattro anni successivi alla comparsa dei sintomi iniziali. Per queste ragioni è sempre più frequente (e consigliato) il ricorso alla cosiddetta Valutazione  Multidimensionale (VDM), un processo diagnostico altamente specifico e teso a determinare le capacità e le limitazioni degli anziani disabili o a rischio disabilità.
Lo scopo della VDM è quello di formulare un piano d’intervento onnicomprensivo per la prevenzione, la cura e la riabilitazione dell’Alzheimer, riuscendo a inserirsi con strumenti adeguati in qualsiasi fase del decorso della malattia.

Cervelli alla prova. Da un punto di vista pratico, si ricorre all’uso di scale di valutazione note e ben standardizzate che consentono un giudizio globale completo; un lavoro di squadra che vede coinvolti geriatri, infermieri e assistenti sociali. Il Mini Mental State Examination  (MMSE) è chiamato proprio a questo compito: valutare, attraverso12 temi e 22 prove pratico-verbali lo stato della malattia o i rischi di contrarla a breve-medio termine. Un’analisi generale che coinvolge le sei aree coinvolte dall’Alzheimer: orientamento spazio-temporale, memoria di fissazione, capacità di concentrarsi (attenzione e calcolo), memoria a breve termine (richiamo), linguaggio, abilità elementari.
Con il Test dei giudizi verbali, ad esempio, il paziente è chiamato a trovare le differenze tra alcune coppie di nomi, piuttosto che spiegare il significato di frasi o classificare gruppi di parole con un termine solo. Per valutare, invece, le funzionalità base di coordinamento fisico si ricorre al Test bucco-facciale: si tratta di eseguire gesti elementari come mostrare la lingua, sbadigliare, soffiare, tossire. C’è poi il Test dell’orologio che, chiedendo di collocare i numeri su un quadrante vuoto e di disegnare con le lancette un orario preciso, valuta l’eventuale compromissione delle funzioni mnemoniche primarie. Così come fa il Trail Making Test, che approfondisce le capacità d’attenzione e la capacità di passare velocemente dal ragionamento alfabetico a quello numerico. C’è il Test delle 15 parole di Ray che, stimolando il paziente a ricordare il maggior numero di parole contenute in un elenco (letto dal medico), indaga sulle aree più volatili della memoria. C’è la Scala di Tinetti, per la valutazione dell’equilibrio e dell’andatura. Troviamo il test “Get up and go” che, invitando ad alzarsi da una sedia, camminare per tre metri, girarsi, ritornare nella posizione di partenza e sedersi, approfondisce la coordinazione motoria. Ci sono, poi, test con suoni, disegni, stimoli visivi e prove che analizzano la capacità di leggere e scrivere.
Tantissimi spunti che non serviranno, in alcuni casi, a porre una diagnosi certa ma sicuramente a dare un’indicazione; uno strumento di screening, utile per seguire le modificazioni dello stato mentale del singolo paziente nel tempo.

La psicologia è la chiave. Ma uno studio efficace dell’Alzheimer deve considerare anche altri aspetti oltre quelli prettamente intellettivi; perché la malattia ha riflessi legati, in buon parte, ai profili emotivi e psicologici dell’anziano. La depressione è uno dei disordini psichiatrici più importanti dell’età avanzata, la prevalenza della depressione negli ultra65enni è maggiore di circa il 4% rispetto alla media generale, mentre disturbi più lievi dell’umore colpiscono anche il 40% di questi. Anche sotto questo profilo, quindi, esistono dei parametri per valutarne la presenza e l’incidenza: la Scala geriatrica di depressione (sulla base di 30 domande, spesso ripetitive e in contraddizione tra loro, che coprono il campo dei sintomi e dei segni della depressione) e la Scala di Hamilton quelle attualmente più utilizzate.
Negli anziani, inoltre, è frequente la coesistenza di demenza e depressione; nella stessa depressione primaria si possono sviluppare disfunzioni cognitive con deficit della memoria, dell’attenzione, della concettualizzazione e dell’apprendimento verbale, sviluppando una sindrome clinica indistinguibile dalla demenza organica. A tal proposito sono stati creati dei parametri specifici per valutare il livello di depressione nel malato affetto da demenza (la cosiddetta Scala di Cornell) che osservando umore, turbe comportamentali, alterazioni di funzioni cicliche e disturbi dell’ideazione rintraccia la presenza di segni riferibili a stati depressivi.

I benefici di un sistema. Ma quali sono i vantaggi di uno studio così imponente? I benefici sono indirizzati innanzitutto alla persona; stabilire lo stato d’avanzamento della malattia permette una maggiore accuratezza diagnostica e l’identificazione di nuovi problemi, per non parlare dell’ottimizzazione della cura farmacologica (potendo trovare la più indicata per il singolo caso) e dell’individuazione della soluzione assistenziale migliore (tra ospedale, degenza semiresidenziale e assistenza domiciliare). Anche da un punto di vista “sistemico”, però, molti sono i lati positivi, su tutti la riduzione dei costi sanitari (meno ricoveri equivalgono a minori oneri per i reparti).
Individuare l’insorgere della demenza prima che sia troppo tardi potrebbe essere la strada giusta per concentrare gli sforzi in maniera fruttuosa sia per il malato (in termini di benefici per la propria salute) sia per chi lo ha in cura (che, così, potrebbe lavorare con davanti prospettive di miglioramento nella diagnosi e, quindi, nella ricerca delle soluzioni). Si attiverebbe un circolo virtuoso che aiuterebbe senz’altro a bruciare le tappe in quella lunga e impervia salita che è, oggi, la lotta all’Alzheimer.

Marcello Gelardini

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