Recentemente il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha dichiarato che il governo prevede di siglare, nell’ambito del nuovo piano Mattei, una serie di accordi con i Paesi d’origine dei detenuti stranieri, affinché possano scontare lì la pena per la quale sono stati condannati in Italia. Si tratta di una scelta legislativa effettivamente adottabile nella pratica? Ne abbiamo parlato con Gaia Caneschi, docente di diritto penitenziario presso l’Università degli Studi di Milano.
Secondo lei la strada suggerita dal sottosegretario alla Giustizia Andrea del Mastro è un percorso effettivamente fattibile dal punto di vista legale?
“Sulla base degli accordi internazionali, la pena si sconta nel luogo in cui è stato commesso il reato. Per cui se uno straniero commette un reato in Italia, viene processato e condannato in Italia è in Italia che deve scontare la sua pena. Fatta salva, ovviamente, l’estradizione, a cui però si ricorre solo per determinate tipologie di reato e in determinate ipotesi ben definite dalla legge. Certo esiste la possibilità per uno Stato di siglare, nel rispetto del diritto internazionale, accordi che prevedano che il condannato sconti la pena nel proprio Paese d’origine”.
Ma non si potrebbe porre un problema in merito alla garanzia dei diritti fondamentali del detenuto?
“Nel caso in cui il detenuto sia cittadino di uno dei Paesi che aderiscono al Consiglio d’Europa, il problema potrebbe non porsi, in quanto ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, esiste il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Questo definisce uno standard minimo di garanzia e tutela che i Paesi, che si sottopongono alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sono tenuti a rispettare. Il discorso si complica nel caso in cui i Paesi di origine dei singoli detenuti non appartengano al Consiglio d’Europa. In questo caso, infatti, potrebbe sorgere un problema in merito al rispetto degli standard minimi di tutela dei diritti umani del detenuto. Credo che la considerazione di questo aspetto debba essere imprescindibile in qualunque iniziativa legislativa di uno stato democratico.
Mi sembra quindi che l’idea del governo sia molto embrionale e si scontri con due ostacoli importanti: il primo è riuscire a stipulare un accordo con il Paese di origine che dovrebbe farsi carico di un detenuto che sconta una pena per un reato commesso in Italia; il secondo, appunto, è la tutela e la garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo”.
Per un detenuto straniero, rispetto a uno italiano, è più difficile ricevere un’adeguata assistenza legale?
“Decisamente sì. Innanzitutto c’è il problema, spesso difficilmente superabile, della barriera linguistica e in più, statisticamente, si tratta di persone con una scarsa disponibilità economica che devono ricorrere a un difensore d’ufficio invece che ad un legale di fiducia. Il difensore d’ufficio – che già normalmente ha difficoltà a mettersi in contatto con un assistito non in stato di detenzione – nel caso di un detenuto, per di più straniero, fatica veramente molto ad intrattenere rapporti costanti con il suo assistito, con cui anche le comunicazioni più semplici diventano complesse a causa dell’ostacolo linguistico.
I mediatori culturali, soprattutto quelli che parlano l’arabo, sono pochi a causa della carenza dei fondi. Alcuni svolgono questa attività come volontari.”
Quello del volontariato mi sembra un tema ricorrente quando si parla di carcere.
“Si. Per esempio una mia collega di dipartimento ha istituito nel carcere di San Vittore uno sportello che si occupa di fornire assistenza legale pro bono. Non si tratta naturalmente di una difesa tecnica professionale, ma di un’assistenza di orientamento per avere, ad esempio, indicazioni su come accedere al gratuito patrocinio o come richiedere una misura alternativa se sono stati raggiunti i presupposti per farne richiesta. Un caso virtuoso. Esempi simili, nel milanese – che è la realtà con cui mi confronto tutti i giorni – ce ne sono diversi, ma poggiano tutti sulla base del volontariato o delle iniziative universitarie. In questo ambito le reti che si associano privatamente per spirito di volontà sono fondamentali.