Michele Miravalle, ricercatore in filosofia e sociologia del diritto e membro dell’Osservatorio minori dell’associazione Antigone, intervistato da Lumsanews, ricostruisce lo status della giustizia minorile italiana e i pericoli che il Dl Caivano potrebbe creare.
Secondo i vostri studi e la vostra esperienza, qual è oggi lo stato di salute della giustizia minorile?
“Il nostro punto di vista come Osservatorio giustizia minorile è che la giustizia minorile italiana fino ad oggi è stata in qualche modo un’eccellenza che molti paesi cercano addirittura di imitare. Questo perché in Italia abbiamo uno dei più bassi tassi di detenzione di minori a livello europeo se non mondiale. In questo momento ci sono meno di 400 minori in tutte le carceri minorili italiane. Questo significa che la giustizia minorile è una giustizia che ha come principale obiettivo non il carcere ma le misure alternative (in particolare nei minori è molto importante la messa alla prova con collocazione in comunità)”.
Serviva una misura di questo tipo?
“Avere norme che vadano potenzialmente a inasprire reati e allargare il numero di persone che potrebbero entrare in carcere minorile rischia un po’ di far venire meno una delle caratteristiche intrinseche della nostra giustizia minorile. Sarebbe stato meglio fare un provvedimento che non spingesse su una risposta solo sul penale”.
L’emergenza baby gang è quindi un falso allarme?
“No, ce lo confermano i dati, non si può negare. Il punto della questione è capire quali sono le cause e le risposte che si danno al problema. Il decreto Caivano dimostra un approccio molto populista. Già solo chiamarlo decreto Caivano e quindi trasformare un luogo in un reato è una cosa che lascia il tempo che trova. Ma aldilà di questo, il decreto ha il solo merito di rispondere alla pancia del paese. La stessa definizione di baby gang rischia paradossalmente di avere un effetto perverso sul sistema. Il rischio è che etichettandole come tali si faccia passare i componenti di quei gruppi come gangster, con l’effetto di mettere delle etichette che rischiano poi di fare entrare davvero quei ragazzi in un loop di criminalità senza la possibilità di uscirne”.
Serviva un provvedimento?
“Solo il tempo ce lo dirà ma, secondo me, gli effetti concreti di questo decreto saranno abbastanza ridotti, come del resto tutti i decreti che appartengono alla sfera del populismo penale. La finalità di questi decreti, infatti, al di là di quello che viene dichiarato ufficialmente, non è risolvere di un problema, ma dare una risposta dura – il famoso pugno di ferro – che però in concreto non cambierà l’approccio della giustizia minorile in Italia né tanto meno le decisioni dei giudici”.
Su cosa si sarebbe dovuto intervenire?
“Faccio l’esempio della messa alla prova, su cui sostanzialmente si basa la nostra giustizia minorile. La messa alla prova è un programma di sospensione del procedimento per cui il minore viene seguito dai servizi sociali e inserito in questi programmi che spesso richiedono anche una residenzialità diversa dalla famiglia, spesso individuata nelle comunità. Su questo punto abbiamo due grandi questioni. La prima è che i servizi sociali faticano per mancanza di risorse a allestire questi programmi e poi a seguirli in maniera appropriata. La seconda è che a livello di numeri mancano queste strutture residenziali pensate appositamente per quella tipologia di ragazzi. Quindi ad esempio sarebbe auspicabile un intervento sulle comunità esterne, diverse dal carcere”.
Sarebbe stato opportuno coinvolgere le associazioni e i genitori che ora rischiano il carcere?
“L’operazione sulle famiglie che fa il dl è strategica, perché spostare la responsabilità sulle famiglie è sicuramente una chiamata alla responsabilità dei genitori che evidentemente troppo spesso sono assenti. Dall’altra parte, però, dobbiamo essere consapevoli che stiamo parlando di famiglie molto problematiche, in cui la commissione del reato appartiene ad uno stile di vita abbastanza normale. Non credo, quindi, che il rischio di andare in carcere si riveli un deterrente”.