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"Oltre al velo e ai diritti
pesano le condizioni
socio economiche dell'Iran"

Jacopo Scita a Lumsanews

"Il patto sociale si è incrinato"

di Luca Sebastiani06 Ottobre 2022
06 Ottobre 2022

Sulle proteste in Iran e sulla posizione del regime islamico di Teheran è intervenuto Jacopo Scita, Policy Fellow del Think Tank Bourse and Bazaar Foundation e ricercatore dell’Università di Durham.

In queste proteste in cui le donne sono scese in piazza per chiedere maggiori diritti, quanto conta la situazione economica del Paese?

“Le condizioni economiche dell’Iran sono stabilmente negative. Il punto chiave è che Teheran ha un’eccezionale resilienza alla pressione economica, sociale e politica. A partire dall’uscita di Trump dall’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa): dopo lo shock iniziale c’è stato un riaggiustamento, soprattutto perché hanno trovato il modo di continuare a esportare petrolio. Questo rende la situazione negativa ma stabile. È chiaro che queste proteste oggi sono esplose per la questione del velo, per i diritti delle donne, quindi con questa componente giovanile, femminile e femminista, ma c’è un importante sottotesto di attrito economico tra il regime e la popolazione. Se vogliamo è il patto sociale tra cittadini e politica islamica che va via via disgregandosi. La Repubblica islamica è oppressiva dal punto di vista dei diritti e allo stesso tempo non sta riuscendo a dare delle condizioni economiche dignitose alla popolazione”.

Rispetto alle altre proteste, quali sono le differenze?

“Ci sono manifestazioni di continuo, in quelle del 2019 la matrice centrale era però economica. Negli ultimi mesi anche i pensionati si sono lamentati dell’inflazione, che nel Paese è galoppante. Queste proteste ricordano più quelle del 2009, quando c’era una stanchezza e una disaffezione verso i metodi di questo strano regime, che ha istituzioni di parvenza democratiche, ma sempre controllate dall’alto. Nel 2009 c’era il Movimento Verde che si opponeva alla rielezione di Ahmadinejad. Anche oggi c’è quell’istanza di cambiamento totale, ma sarebbe sbagliato far finta di non tenere conto del substrato sociale ed economico”.

Almeno a quanto vediamo, sembrano essere molto diffuse le manifestazioni nel Paese. Qual è il rapporto tra popolazione e regime?

“È sempre difficile capire cosa sta succedendo. Quello che a noi arriva sono sempre specifiche immagini di un quadro invece più grande. Il patto sociale si è incrinato con alcune parti del Paese, quelle più giovani, progressiste, più proiettate verso la globalità, che soffrono chiaramente un problema di rappresentanza. Dall’altro lato ci sono molti iraniani a cui il regime va benissimo, perché ne hanno un beneficio economico, sociale, lavorativo e a cui lo status quo va bene. C’è un trend che sembra negativo e onestamente non si intravede una sorta di creatività del regime per cambiare questa rotta, l’unica soluzione adottata da loro è reprimere quando avvengono queste proteste”.

La rivolta può portare a qualche reale cambiamento, anche minimo? 

“Secondo me non in questo momento, la risposta scelta oggi è la repressione, il pugno duro che reprime chi protesta perché reputato un nemico della Repubblica islamica, magari influenzati da attori esterni. Faccio fatica a essere ottimista, a oggi non sembra che le proteste abbiano la portata di una vera e propria rivoluzione. Poi non si può mai dire perché tutte le rivoluzioni partono da un fiammifero acceso. Temo che però a un certo punto prevarrà la stanchezza a seguito della repressione. Almeno fino alla prossima ondata tra mesi o anni, quando ripartiranno. Chi oggi è al potere delle istituzioni rappresentative, cioè il presidente Ebrahim Raisi, non è una persona storicamente incline a riformare. Raisi era alla testa delle purghe degli anni ‘80 contro i nemici della repubblica islamica”.

Quale ruolo svolgono gli altri attori regionali?

“Tutti gli attori regionali sono cauti e molto pragmatici, nel senso che secondo me ora preferiscono un Iran che rimane quello che è rispetto a una possibile escalation rivoluzionaria dagli effetti sconosciuti. C’è la consapevolezza del rischio concreto che finisca in un fuoco di paglia, ovvero l’ennesima protesta che per la repressione si scioglie in alcune settimane. Non conviene agli attori regionali buttarsi su queste proteste e intervenire, anche perché molte di queste dinamiche corrispondono alla realpolitik. Tra l’altro, da alcuni mesi, c’è un importante trend di dialogo nell’area”.

Invece la diaspora e le grandi potenze?

“L’elemento interessante è la diaspora che sta facendo pressione, è molto attiva, e aiuta ad amplificare la portata reale di queste proteste. Un altro fattore degno di nota è arrivato da parte degli Stati Uniti che ha allargato le maglie delle sanzioni, rendendo più facile a Google o Starlink di offrire servizi internet agli iraniani senza il rischio di essere sanzionati. Un modo per garantire la partecipazione e una coordinazione interna, visto che la Repubblica islamica è la prima cosa che taglia. È una mossa interessante anche se bisogna capire la reale efficacia di questa cosa. Gli Usa si sono messi con molta cautela dalla parte di chi protesta. Dall’altra parte la Cina è l’alleato perfetto di Teheran. La premessa è che Pechino sta diventando un attore sempre più importante in Medio Oriente, sia per la cooperazione economica sia perché c’è un patto di non ingerenza negli affari interni altrui. La Cina non si “impiccia” di cosa succede nei Paesi mediorientali e in cambio chiede di non avere problemi domestici, specie nella questione delle minoranze islamiche interne. Non si vedrà mai la Cina fare pressione su Teheran. È lì che si trova la saldatura perfetta con Pechino”.

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