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"Ascoltare e comprendere
i ragazzi che soffrono
può mitigare i rischi"

La neuropsichiatra Michela Gatta

"Attenzione ai social come doppia arma”

di Michela Pagano27 Settembre 2022
27 Settembre 2022

La dottoressa Michela Gatta è Direttrice dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. Sulla base della sua esperienza ci ha raccontato che ha visto ridursi l’età dei ragazzi, perlopiù donne, che tentano il suicidio.

Parliamo di suicidi e tentati suicidi giovanili. Di che tipo di ragazzi si tratta?

“Più frequentemente si tratta di ragazzi che hanno una fragilità o una sofferenza psichica, perlopiù di genere femminile in età adolescenziale. All’arrivo in pronto soccorso segue poi il ricovero in ospedale per stabilizzare la situazione clinica ed eventualmente approfondire alcuni aspetti che ruotano attorno al gesto e stabilire un’adeguata rete di supporto laddove non c’è o rinforzare quella già esistente che evidentemente però non è riuscita a sostenere adeguatamente il ragazzo o la ragazza. L’età media ruota intorno ai 15 o 16 anni ma nell’ultimo anno e mezzo, sulla base della mia esperienza, posso dire di aver visto ridursi l’età dei ragazzi che arrivano in ospedale per tali problematiche: ci sono anche ragazzini di 13 o 14 anni”.

Qual è il lavoro da fare per aiutare questi ragazzi?

“È prevalentemente un lavoro di ascolto e di rete. Di ascolto inteso come comprensione della situazione che i ragazzi vivono. Stiamo parlando di un’età che porta con sé una serie di turbamenti e fragilità oltre che eventuali problemi legati a una storia difficile specifica o traumatica familiare o extrafamiliare, che è noto risultano fra i fattori di rischio per gesti suicidari. Questi sono tutti aspetti che vanno chiariti e approfonditi e a seconda degli elementi che emergono va mirato l’intervento. Per quanto riguarda il secondo aspetto bisogna fare rete con la famiglia e le istituzioni territoriali, pubbliche o private, quindi è importante poi riuscire a collegarsi tra le figure professionali come il neuropsichiatra infantile, lo psicologo e l’educatore”.

L’altro strumento fondamentale è la prevenzione…

“La prevenzione penso che debba essere un insieme di azioni, nel senso che una singola risulterebbe poco efficace. Azioni che devono realizzarsi su più livelli e in diversi ambiti, sia  individuale sia ambientale, cioè famiglia, scuola, società in generale, perché penso che questo insieme di azioni su più livelli, portato avanti nel tempo, siano più efficaci rispetto al singolo intervento che si focalizza su un fatto specifico. Pensando ad azioni sul piano ambientale-sociale mi viene in mente la comunicazione mediatica per esempio, non avere paura di parlarne. Sicuramente un’altra modalità da un punto di vista preventivo è sensibilizzare e favorire la conoscenza sul tema specifico e in generale sulla salute mentale, in modo che possa ridursi lo stigma attorno alla sofferenza psichica e alle patologie neuropsichiatriche e si possa favorire l’accesso ai servizi e alle cure. Poi monitorare se non limitare, in alcuni casi, modi e strumenti che vengono utilizzai per porre fine alla propria vita (accessi a ponti e ferrovie ad esempio), monitorare l’utilizzo di farmaci potenzialmente pericolosi che sono lo strumento principale con cui i ragazzi tentano il suicidio. Poi a  livello individuale è importante cogliere i campanelli d’allarme e contenere i fattori di rischio individuali”.

Qual è la situazione che vivono anche le famiglie di questi ragazzi?

“Le situazioni sono varie nel senso che dietro questi ragazzi spesso ci sono famiglie in difficoltà, in disagio socio economico, ma troviamo anche famiglie che non presentano problemi di questo tipo. Di volta in volta quindi è importante identificare quali sono le dinamiche interne familiari che ruotano attorno al ragazzo perché in alcuni casi sono più importanti e possono essere in qualche modo un elemento significativo su cui intervenire per aiutare il minore. In altri casi, quando la psicopatologia individuale è il fattore di rischio principale, l’intervento è da focalizzare sul minore, pur coinvolgendo la famiglia nel sostegno del ragazzo che resta fondamentale; quindi di volta in volta si tratta di fare una valutazione ad ampio raggio in modo da formulare le azioni di supporto migliori”.

Qual è in questo contesto il ruolo dei social e di internet?

“Internet e i social hanno una doppia faccia nel senso che da un lato hanno una potenzialità positiva per i giovani per sentirsi connessi e trovare supporto al di fuori del contesto fisico. Penso a quei casi in cui le relazioni individuali sono un disagio, per cui quelle virtuali invece possono rappresentare una funzione importante di supporto e amicizia che i ragazzi magari dal vivo non riescono a trovare. Dall’altro però possono avere anche un’influenza negativa quando diventano uno strumento che attiva l’azione pericolosa. Poi è chiaro che l’effetto che certi messaggi promuovono in ognuno dipende dalla fragilità individuale, dalla capacità di critica, dai propri punti di forza e di debolezza, dalla possibilità di potersi confrontare piuttosto che essere soli. Sono degli aspetti molto articolati che non si possono definire bianchi o neri, ci sono tante sfumature e credo che la cosa più importante sia di volta in volta cercare di capire per quella persona specifica qual è la situazione che gli ruota attorno, anche legata all’uso dei social e di internet e coglierla nella sua particolarità e unicità”.

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