Massimo Camilli è il responsabile della Comunità per minori “Giovanni Paolo I”. Vanta un’esperienza di oltre 20 anni nel settore.
Nei ragazzi che hanno un passato in una baby gang prevale un senso di pentimento?
“Intanto va chiarito che spesso i ragazzi che usano la violenza in questo modo sono i cosiddetti antisociali, coloro che hanno difficoltà a relazionarsi con i coetanei nella vita quotidiana. È vero che spesso hanno un atteggiamento fiero nei confronti della violenza commessa in passato ed è molto difficile aprire un dialogo e confrontarsi con loro. È come se loro avessero bisogno di imparare a sentire le emozioni, perché sanno pensare bene ma non sono in grado di provare pentimento e vergogna per ciò che hanno fatto”.
Quanto ha inciso il Covid sul fenomeno delle baby gang?
“Secondo me ha inciso molto. Dalla mia esperienza posso dire che il livello di rabbia e di scontro fisico verbale e fisico è aumentato notevolmente, ormai è quasi fuori controllo. Quello che preoccupa è che si fa molta fatica a invertire questa tendenza e tornare sugli standard precedenti alla pandemia”.
Quale pensa sia la causa di questa escalation violenta?
“La causa è la incapacità di costruire relazioni in modo sano. Quindi, data questa incapacità, si formano relazioni di gruppo basate però sulla violenza, non su sentimenti sani. Ma questa difficoltà nel rapportarsi è data dalla famiglia. Molto spesso questi ragazzi sono così perché, quando erano piccoli, i genitori hanno parlato poco con loro”.
Qual è una possibile soluzione per far sì che questi atti violenti non si ripetano?
“Secondo me si dovrebbero creare percorsi diversi dallo stare in Casa Famiglia, dove i progetti sono essenzialmente educativi. Non basta ascoltare e comunicare con loro. Servono strutture con programmi mirati per permettere a questi ragazzi di imparare a relazionarsi e aiutarsi a vicenda. Tutto questo va fatto però tramite l’azione, tramite viaggi di gruppo per rafforzare il team building”.