Alessandro Sesani è capo allenatore del team di League of Legends dei Qlash, un’organizzazione internazionale nel settore degli Esports, leader nei maggiori titoli videoludici e con la community più grande in Italia, fondata nel 2017 da Luca Pagano.
La sua figura è più simile a quella di un allenatore o di un direttore sportivo?
“La mia figura è molto più simile a quella del coach di una squadra di football americano o del manager di calcio all’inglese. Quindi mi occupo della gestione degli allenamenti coordinando uno staff tecnico, che poi porta avanti il lavoro sul campo”.
Da quante persone è composto questo staff? Che ruoli hanno?
“Dipende dal livello di competizione, in genere le figure coinvolte variano. Se vogliamo considerare una squadra “amatoriale” bastano un paio di persone. Se consideriamo un contesto più “professionale” possono volerci anche sei o sette persone. Per esempio, la nostra squadra più professionale nel videogioco League of Legends è composta dallo strategic coach, un assistant, un analist e due positional. Il primo studia la strategia della nostra squadra e quella usata dagli avversari. L’assistant organizza il lavoro pratico. L’analista è un vero e proprio data analyst: analizza i dati della nostra squadra e degli avversari rendendoli leggibili e fruibili. I positional allenano ruolo per ruolo i giocatori sulle performance da eseguire”.
Cosa significa essere un pro player? Quanto allenamento serve?
“La quantità di allenamento dipende dalla competizione. In Cina o in Corea hanno dei metodi di allenamento fortemente criticati. Si allenano anche per giornate intere. In Europa si parla approssimativamente di otto ore. È un lavoro vero e proprio in termini di impegno”.
Ritiene sia un lavoro sostenibile anche dal punto di vista economico?
“Per quanto riguarda i player professionisti è assolutamente remunerativo. Prendiamo ad esempio una carriera che inizia a sedici anni e dura fino ai trenta. Con una carriera del genere è molto probabile che tu non debba più lavorare per il resto della vita. Ma solo una piccola percentuale di giocatori può riuscirci. È il caso di fenomeni dei videogame, i Ronaldo, Baggio del calcio. I giocatori semi pro se la cavano bene, ma una volta finita la carriera dovranno reinventarsi per ricoprire altri ruoli nel settore. Non solo. Possono portare la loro esperienza all’esterno perché ci sono un sacco di aziende che ricercano figure con queste skill. Ad esempio produttori di hardware o software hanno bisogno di tester esclusivi. Oppure come nel calcio si possono reinventare come commentatori o analisti”.
Quindi per i giocatori i ricavi dipendono da stipendi, sponsorizzazioni e montepremi?
“Per quanto riguarda i livelli massimi di competizione, in cui si sfidano i veri professionisti, il montepremi non è poi così rilevante, perché il contratto e le sponsorizzazioni garantiscono ampi introiti e i montepremi diventano una percentuale molto bassa. Per i semi pro invece il jackpot finale di un torneo rappresenta una fonte di ricavo che non possono trascurare”.
E invece chi fa parte di uno staff?
“Vale lo stesso concetto. Ai massimi livelli ci sono grandi responsabilità e il rischio di fare errori è alto, per cui le entrate sono maggiori. Con la stessa incertezza legata ai risultati che può avere un allenatore di serie A nel calcio. Io faccio questo lavoro da sette anni circa ed è la mia attività principale. Ma faccio anche altre cose insieme ai Qlash. Ad esempio organizzo e gestisco il campionato italiano di Tft, gioco di strategia tutti contro tutti che ha per protagonisti i campioni di League of Legends. Ho imparato anche a occuparmi delle telecronache. In realtà non ho necessità economiche che mi spingano a farlo ma ritengo sia importante migliorare le proprie capacità e ampliare le proprie competenze. Mi occupo anche di educational: seguo un progetto di una scuola privata in provincia di Bergamo per inserire nel corso di studi qualche ora da dedicare agli esport”.
In Italia quanta dignità professionale hanno gli eSport?
“Di fatto non esiste un vero e proprio professionismo. Avere un riconoscimento professionale per tutte le figure che fanno parte di questo mondo sarebbe molto importante perché permetterebbe alle aziende endemiche di investire con più efficacia. Le aziende che investono negli esport in Italia lo fanno a seguito di un’esperienza internazionale, sanno cosa significa perché l’hanno già vissuto in altri Paesi dove c’è maggiore conoscenza del fenomeno ed un settore maggiormente professionalizzato”.