Quando parla dei Conservatori è molto combattuta; due istinti la governano: da una parte la razionalità e il realismo della sindacalista, dall’altra la passione della musicista. Indiana Raffaelli è una formidabile violoncellista e compositrice. Ma, negli ultimi anni, ha ricoperto la carica di Segretario regionale per il Lazio del Siam (il Sindacato italiano artisti della musica).
Un periodo buio per l’alta formazione italiana in cui, oltre a toccare con mano la crisi del settore, ha raccolto le testimonianze delle migliaia di colleghi schiacciati dalle difficoltà. Con lei abbiamo perciò tentato di affrontare il problema da un doppio punto di vista: quello legislativo e istituzionale e quello pratico, della vita di tutti i giorni.
Come giudica le ultime voci dalla crisi? Sembrano presagire scenari funesti.
«Infatti. Il sistema fa acqua da tutte le parti: le possibilità d’inserimento fisso sono ormai scarsissime a causa, soprattutto, dei sempre maggiori tagli alla cultura. Il Fondo unico per lo spettacolo del Ministero dei beni culturali si riduce ogni anno di più».
Le conseguenze più immediate di questi bilanci sempre più negativi?
«Innanzitutto l’impossibilità di allestire spettacoli dal vivo in grado di assorbire tutti i musicisti su piazza. I soldi non bastano; ma questa è solo la punta dell’iceberg».
Si spieghi meglio.
«Ci sono altre conseguenze, meno evidenti ma assai più gravi. Anche laddove si allestiscono eventi, ultimamente sta scadendo non solo la quantità ma anche la qualità; gli organici sono ridotti al lumicino, i solisti e i duetti hanno praticamente sostituito i gruppi “da camera”. Per non parlare del profilo economico; i giovani musicisti, oggi, sono sottopagati e comunque quasi sempre sottopagati. E’ un cane che si morde la coda».
Ma questi problemi, anche se in misura minore, si manifestano ormai da parecchi anni; c’erano anche prima della crisi economica. Cosa non funziona nel sistema?
«La colpa principale del precariato musicale di alto profilo è di una riforma scellerata dei Conservatori. In passato esistevano solo i diplomi tradizionali, l’unica via possibile per diventare un professionista del settore, che seguivano la formazione dello studente in tutta la sua maturazione. Con l’introduzione del sistema 3+2 si sono moltiplicati i corsi senza preoccuparsi del collocamento».
Possibile che sia bastato solo questo?
«No. Gli interventi legislativi che negli anni si sono susseguiti, hanno ulteriormente appesantito il sistema: dapprima prevedendo per i laureati di I livello la possibilità di accedere all’insegnamento; poi equiparando le lauree di II livello a quelle di vecchio ordinamento ma anche a quelle (magistrali) rilasciate dai Dams».
In teoria sembra una buona idea. Accelera l’inserimento dei diplomati nel sistema della docenza.
«Peccato che i posti non ci siano. Nei conservatori è stato imposto il blocco delle assunzioni (in attesa di sfoltire il corpo insegnanti presente); nelle scuole medie sono solo quattro le tipologie di cattedre previste dai programmi ministeriali per cui, se non suoni uno di questi strumenti, se tagliato fuori; dei licei musicali, poi, non ne parliamo: in Italia c’è ne uno solo vero e proprio, gli altri sono sezioni dei licei artistici, in ogni caso troppo pochi rispetto alle migliaia di diplomati ogni anno».
Cosa deve fare, allora, un diplomato; soprattutto se di primo livello?
«In molti casi si devono accontentare di tenere i corsi pre-accademici organizzati dai Conservatori»
Di che si tratta?
«Nel nostro Paese manca una formazione diffusa e lungimirante. Capita, così, che gli studenti entrano nei Conservatori senza avere un’adeguata formazione di base. Le accademie sono così costrette a tenere corsi propedeutici per consentire a tutti di partire dal medesimo livello».
Perché ha parlato di “accontentarsi”?
«Sempre per la questione del blocco delle assunzioni, i docenti di questi pre-corsi sono a progetto, pagati pochi euro l’ora per un lavoro che è, tutto sommato, uguale a quello dei docenti veri e propri. È scandaloso che nella stessa struttura ci siano precari, costretti a fare altro per arrivare a fine mese, e contrattualizzati, garantiti sia dal punto di vista economico che previdenziale, chiamati a svolgere le stesse mansioni. E non è il solo paradosso».
Ovvero?
«Un esempio: per insegnare in una scuola media occorre un diploma di Conservatorio; per insegnare in un Conservatorio basta la comprovata attività artistica a un certo livello. In questo modo si preferirà ingaggiare docenti “di nome” per aumentare il prestigio dell’accademia e le porte per un giovane diplomato tenderanno a restare sempre chiuse. Questo mondo è una costante anomalia».
Perché, ci sono altri paradossi?
«L’intero sistema è un paradosso; è come se ai “piani alti” non comunicassero tra loro. Gli interventi non solo non migliorano le cose ma, se possibile, le peggiorano. I problemi sono la chiusura delle orchestre stabili, la graduale scomparsa dei fondi e l’agonia dei fondazioni ed enti lirici? La risposta è: l’aumento dei conservatori, l’impennata dei diplomati/disoccupati e l’apertura agli istituti pareggiati e alle accademie private».
Non c’è quindi speranza per i giovani musicisti?
«Alle condizioni attuali è difficile prevedere sprazzi di sereno a breve. Molti laureati, pochissimi posti, salari molto bassi. L’unica categoria che può essere fiduciosa è quella dei compositori; sono abituati a dialogare con tutti gli strumenti e sono quindi in grado di “riconventirsi” e adattarsi ai diversi contesti abbastanza agevolmente. Per alcuni tipologie di musicista un po’ di mercato c’è ancora».
Avrà pensato, però, a possibili soluzioni?
«A mio avviso bisogna attivare un processo a ritroso. Partire dal presupposto che uno studio efficace delle arti musicali debba iniziare, come avveniva in passato, nella fascia di età tra i 6 e gli 11 anni. Invece, da noi, alle elementari l’approccio del bambino alla musica non è neanche previsto; il genitore che volesse far avvicinare il proprio figlio a questo mondo deve pagare di tasca sua per far allestire nelle scuole corsi facoltativi, tenuti da docenti esterni».
Come procedere? Non è facile cambiare il senso di marcia quando il percorso è già a un punto avanzato.
«Non necessariamente servono grandi stravolgimenti. Basterebbe operare su tre livelli di alfabetizzazione culturale: far conoscere l’importanza storico-sociale delle arti fondamentali già a partire dalle scuole elementari; farla diventare obbligatoria alle scuole medie; rendere più efficace il sistema dei licei specializzati».
Pensa che basti un progetto che, tutto sommato, è più teorico che pratico?
«Le risorse attuali non consentono di immaginare chissà che. Ma non possiamo stare a guardare; una riflessione è d’obbligo. Credo sul serio che potrebbe essere un primo passo per rilanciare il settore e ricominciare a far credere anche le istituzioni nel potenziale della musica; sperando che prima o poi i fondi tornino a livelli sufficienti per progettare una nuova era di splendore per la musica, anche in Italia».
Marcello Gelardini