Federico Spadini è un attivista di Greenpeace Italia per la campagna Clima e Trasporti. Ha spiegato a Lumsanews le dinamiche alla base del greenwashing e perché è necessario fermare le sponsorizzazioni dei colossi del combustibile fossile.
Come riconoscere le operazioni di greenwashing?
Per il Cambridge Dictionary sono finalizzate a “far credere che un’azienda si stia impegnando per proteggere l’ambiente più di quanto non faccia in realtà e sia interessata a proteggere l’ambiente quando invece non lo è”. Qualsiasi comunicazione che promuove attività inquinanti spacciandole come sostenibili è greenwashing, così come qualsiasi messaggio che promuove attività realmente green ma in modo esasperato, portando a credere che rappresentino il core business dell’impresa, quando invece sono una parte minoritaria. Bisogna studiare sia i messaggi che l’operato delle aziende. Lo abbiamo fatto nel recente rapporto di Greenpeace Paesi Bassi, realizzato dal gruppo di ricerca DeSmog, “Tante parole e pochi fatti” per smascherare chi investe sui combustibili fossili e mostrare la verità celata dalla pubblicità.
In quale comparto di mercato il fenomeno del greenwashing può essere più dannoso?
Ovunque, perché si tratta di messaggi fuorvianti che confondono, o addirittura ingannano, le persone. È molto pericoloso in i settori che hanno a che fare con l’attuale crisi climatica. Penso all’energia, ai trasporti, ma anche al comparto dell’alimentare e della plastica.
Per abolire le pubblicità delle multinazionali inquinanti occorre però un milione di firme.
Greenpeace, insieme ad altre venti organizzazioni, ha appena lanciato una “Iniziativa dei Cittadini Europei” per chiedere il bando delle sponsorizzazioni da parte del settore fossile, tra i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico. Abbiamo di fronte una vera sfida: raccogliere un milione di firme in Europa entro ottobre 2022. Se l’obiettivo verrà raggiunto, allora la Commissione Europea avrà l’obbligo – in virtù del funzionamento dell’ICE – di discutere la proposta di legge ed esprimere valutazioni politiche e giuridiche. In ultima analisi ciò potrebbe tradursi in una nuova legge europea.
Non basterebbe imporre maggiore trasparenza alle campagne marketing?
In passato iniziative simili non hanno funzionato e le aziende hanno sfruttato ogni scappatoia possibile per continuare con la propria comunicazione “nociva”. Vogliamo risolvere il problema alla radice e replicare esattamente quello che è successo con l’industria del tabacco. In quel caso l’Unione Europea ne ha vietato le sponsorizzazioni, riconoscendo il pericolo per la salute: perché le aziende del fossile, che con il loro business hanno impatti sia sulla salute delle persone che su quella del Pianeta, dovrebbero continuare indisturbate a farsi pubblicità?
Il divieto potrebbe spingerle ad investire in una vera transizione ecologica?
Sì. Greenpeace ha proposto che un’azienda energetica totalmente riconvertita alle energie rinnovabili ed efficiente possa poi tornare a pubblicizzare il proprio business. Dobbiamo riconoscere la responsabilità di queste aziende e metterle con le spalle al muro, per farle abbandonare una volta per tutte un business dannoso e inquinante.
Come si stanno muovendo i governi, annunci e proclami a parte.
La situazione è abbastanza diversificata. Soprattutto nel Nord Europa ci sono discussioni politiche a vari livelli, dai parlamenti ai consigli comunali, per bandire la pubblicità fossile. In alcune città i bandi, seppur parziali, sono già in vigore. Manca però un’iniziativa comune e “di sistema” che spinga davvero i governi ad avere quel ruolo di regolatori che stanno avendo. È proprio per colmare questa mancanza che Greenpeace si è mossa con decisione.