Lo scorso 4 ottobre un nuovo blackout ha colpito i principali social media di Mark Zuckerberg. Simone Mulargia, docente di Scienze della comunicazione, marketing e digital media all’università Lumsa, in un’intervista a LumsaNews ha analizzato i risvolti sociali del “down” generalizzato.
Il blackout dei social che ha coinvolto Facebook, Instagram e Whatsapp può essere ricondotto a un problema tecnico o a una precisa strategia umana? C’è chi parla di un esperimento globale a livello sociale.
“Secondo le posizioni ufficiali dei gestori dei social si è trattato di un problema tecnico, ma quel che è certo è che il blackout è stato un’occasione per poter ragionare su noi stessi e sul rapporto che abbiamo con queste tecnologie”.
L’ex manager di Facebook, Frances Haugen, alla sottocommissione del Senato statunitense, ha accusato la piattaforma di Menlo Park di sapere come rendere i suoi social più sicuri ma senza metterlo in pratica. I profitti hanno quindi superato la sicurezza degli utenti nella scala di priorità?
“È un tema che si inserisce nel più ampio tema della regolamentazione delle piattaforme che stanno assumendo un profilo planetario che supera la capacità dei singoli Stati di poter agire. Ci troviamo di fronte a dei rapporti di forza invertiti: sono dei soggetti privati che gestiscono dei processi di rilevanza pubblica. L’Unione europea è riuscita a porre dei limiti per quanto riguarda la privacy e i cittadini europei sono mediamente più protetti rispetto a quelli degli altri Paesi. È finito il tempo in cui i responsabili delle piattaforme davano la colpa agli utenti che inserivano liberamente i dati. Ormai sappiamo che c’è bisogno di una responsabilità complessiva che riguarda sia le piattaforme sia la politica, che deve prendersi l’incarico di trovare soluzioni rispettose delle iniziative imprenditoriali ma anche dei diritti dei cittadini”.
I disservizi che si sono verificati hanno favorito una riscoperta della comunicazione tradizionale, come gli sms e le chiamate, e uno spostamento sulle piattaforme non controllate da Zuckerberg, come Twitter e Telegram?
“C’è stata una straordinaria occasione di instant-marketing. Sicuramente questo blackout ha spostato anche qualche utente un po’ restio verso altre piattaforme. Ognuno di noi vive in simbiosi col proprio cellulare, che è la porta di accesso a un mondo di servizi, relazioni e di esperienze positive. Ogni tanto una passeggiata può essere un buon esperimento da mettere in campo personalmente”.
Quali conseguenze ha la dipendenza dai social sui ragazzi? Può essere un’occasione per riscoprire la libertà e il rapportarsi con gli altri fuori da uno schermo?
“Stiamo cercando di comprendere come comunità di studiosi il tipo e l’estensione della dipendenza. Non tutti gli studiosi sono d’accordo sul definirla così. I social possono diventare un luogo in cui i giovani possono sfogare i loro problemi. La responsabilità però non è solo dei social, ma anche della società in generale. Tendiamo a utilizzare i social come parafulmine. Se un giovane vive un’esperienza di disagio, è colpa di una società che non riesce a gestirlo bene, di famiglie magari troppo impegnate, di assenza di servizi sociali e reti di protezione, che fanno sì che il disagio si riversi sui social. Questi sono uno strumento per l’esperienza degli esseri umani che hanno prodotto delle straordinarie esperienze che possono essere fatte anche offline”.