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Senza fissa dimora, ferita nascosta di Roma

di Andrea Persili21 Ottobre 2021
21 Ottobre 2021

E’ stato forse un fornelletto usato dai senzatetto che vivono sulle banchine del Tevere a far divampare l’incendio che ha bruciato il ponte dell’Industria a Roma. Si tratta al momento solo di un’ipotesi investigativa, ma lo spirito di crociata contro il degrado non ha atteso la sentenza dei giudici. La soluzione, dice parte dell’opinione pubblica, rimane quella di sgomberare gli homeless. I vigili urbani arrivano e portano via le tende. Ma in assenza di politiche sociali quei clochard  andranno a piantare la tenda in un’altra zona.

Senzatetto con un solo nome, tante realtà

Dal censimento Caritas risulta che sono circa 7.709 le persone senza fissa dimora a Roma, pari al 15,2% del dato complessivo italiano e alla quasi totalità della popolazione di senzatetto del Lazio. Secondo i dati pre pandemici gli alloggi improvvisati in cui vivono gli homeless sono circa 4.564, la maggior parte dei quali concentrati nella zona del centro storico (circa 558 tra tende, camper, baracche). Fanalino di coda è il Nomentano con appena 76 abitazioni di fortuna. 

Bruno Nardi, coordinatore del segretariato sociale del XII municipio, dice a Lumsanews che “con il Covid la situazione è peggiorata. Si assiste in strada a un incremento del barbonismo, anche se mancano ancora numeri certi”. È un mondo variegato quello dei senzatetto. Puoi incontrare chi ha perso il lavoro, ma anche mariti rimasti senza casa dopo una separazione. C’è il tossicodipendente, ma anche l’immigrato in difficoltà economiche. Non mancano poi tantissimi uomini e donne affetti da malattie mentali. 

Ci sono gli itineranti, quelli cioè che si spostano di quartiere in quartiere alla ricerca di cibo, vestiario e giacigli dove dormire, mentre alcuni creano legami stabili con i territori. Sono in maggioranza stranieri, ma non mancano italiani o apolidi. Spesso hanno difficoltà di reinserimento e problemi di dipendenza alle spalle. Marco Mascagni, un referente dei centri di ascolto Caritas, afferma che “gli abitanti dei quartieri si dividono a metà tra chi aiuta gli homeless con cibo e coperte e chi invece firma petizioni per mandarli via”. 

Tra dormitori e reinserimento

L’aiuto ai senza fissa dimora svela tutte le criticità del sistema. A partire dal tetto sulla testa, almeno di notte, che è la risposta più immediata che il Comune tenta di offrire a queste persone. Gli operatori delle unità di strada cercano gli homeless e tentano di convincerli ad andare nei dormitori. I letti però sono pochi rispetto alla domanda degli utenti. 

Si tratta di circa mille posti disponibili per l’accoglienza notturna in sette centri ordinari, cui sono stati aggiunti lo scorso inverno 450 posti del Caritas e circa 70 brandine a Stazione Termini e Tiburtina, per una spesa complessiva di oltre 1 milione e 100 mila euro. Nardi ci spiega poi che in queste strutture non mancano furti e risse, spesso per motivi religiosi o etnici. I dormitori sono spesso lontani dai luoghi frequentati abitualmente dai clochard, mentre il divieto di portare con sé i cani, spesso gli unici compagni di via e di vita, spinge molti senza fissa dimora a non andare. Da non trascurare è poi la divisione tra uomini e donne, con i nuclei familiari costretti a separarsi durante la notte. 

Anche la capacità di spesa sociale del Comune non va meglio. Dal Pon Metro 2014-2020 emerge che dei 3 milioni di fondi europei a disposizione per interventi a favore dei senzatetto sono stati spesi dal Comune appena 245 mila euro per l’inclusione di rom e solo 164mila per “interventi innovativi per le persone senza fissa dimora”. Spiega poi Nardi che “il progetto comunale di creare altri 100 posti letto a municipio per l’emergenza freddo è andato in ordine sparso, con l’VIII municipio che ha centrato l’obiettivo grazie anche alle associazioni, mentre altri, come il XII, hanno valutato di non avere posti a disposizione”. 

Anche i percorsi di reinserimento sociale hanno molte criticità. Requisito essenziale per accedere al reddito di cittadinanza e alle prestazioni del servizio sociale, tra cui anche i progetti di reinserimento, è il possesso della residenza, di cui spesso gli homeless sono privi. Prima del 2017 anche le associazioni come Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Associazione Centro Astalli e Esercito della salvezza potevano assicurare il servizio di anagrafe. Dopo il 2017 il Comune ha accentrato la procedura, con un aumento dei tempi di attesa e l’incremento dell’inesigibilità dei diritti. “Tutto questo è dovuto all’atteggiamento guardingo di questi ultimi anni da parte del Comune nei confronti del mondo delle associazioni e del terzo settore”, è il parere di Paolo Ciani, consigliere della Regione Lazio e rappresentante della Comunità di Sant’Egidio. 

L’uovo di Colombo: la sussidiarietà

Sussidiarietà. È questa la medicina in grado (forse) di migliorare l’aiuto ai senza fissa dimora. L’inverno scorso il centro anziani di Garbatella ha aperto le porte ai senzatetto e le realtà autogestite del territorio hanno creato una rete di solidarietà, preparando loro pasti e colazioni calde. La casa di accoglienza Caritas Santa Giacinta di via Casilina Vecchia ha offerto agli homeless non solo servizi di prima necessità, ma anche la presenza di un medico tre volte a settimana e le prestazioni di segretariato sociale. 

Ancora adesso la Comunità di Sant’Egidio ha un progetto, “Housing First” che vuol dire prima la casa, il cui approccio è quello di partire dall’offerta di un alloggio stabile per poi affrontare man mano le problematiche specifiche dei clochard come la mancanza di lavoro, le dipendenze e i problemi di salute. Il XII municipio ha realizzato poi con il mondo delle associazioni progetti diurni, dove mettere a disposizione non solo servizi di pulizia, ma anche computer per svago o per lavoro.  

Ma come mettere a sistema questa intricata rete di solidarietà? Nardi sostiene che la regia del processo di aiuto deve passare dal Comune ai singoli municipi, “che conoscono meglio non solo i problemi del territorio, ma anche le risorse”. Ciani ritiene che l’istituzione pubblica deve mettere a regime quello che fa il mondo dell’associazionismo “che è molto più efficiente dell’amministrazione pubblica”.

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