Francesco Tamburini è professore di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici all’Università di Pisa. A Lumsanews ha descritto gli aspetti storici e politici di un Paese da sempre sotto il controllo cinese e che, anche durante la fase democratica guidata da Aung San Suu Kyi, ha presentato delle criticità.
Prima di entrare nelle questioni internazionali, vorrei capire di inquadrare in chiave storica lo sviluppo istituzionale del Myanmar.
Dal 1948, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, fino al 1962 ci sono stati regimi sostanzialmente democratici. Dal 1962 al 2011 il Tatmadaw, ovvero l’esercito, ha controllato il Paese. Poi spesso viene tralasciata la questione istituzionale, che è importante: la Costituzione del 2008 prevede che il 25% dei seggi spetti per legge al partito dell’Unione, Solidarietà e Sviluppo, che è l’espressione, niente meno, delle forze armate. Quindi è evidente che costituzionalmente, i militari sono già all’interno di un sistema che democratico non è. A loro piacimento si riprendono ciò che concedono se il sistema devia da quelli che sono gli interessi specifici della Lobby dei militari, rappresentati da un partito legalizzato.
Qual è il ruolo che l’esercito ha avuto nel Paese? Perché anche la costituzione del 2008, che doveva segnare un’apertura democratica, non sembra risolvere tutti i problemi.
No, anzi, semmai li complica. I militari birmani stanno allo Stato come i militari algerini stanno allo Stato algerino. Sono cioè i protettori di un’unità nazionale e di un sistema neo patrimoniale, ovvero quello che si basa su un cliente e un padrone, e quindi fondamentalmente corrotto. I militari sono i gestori di questo sistema. Si parla di un totale di quasi 600mila soldati più forze paramilitari, che contano circa 105-106mila. Con anche spese militari annuali che ammontano a circa 2 milioni di dollari. Una cifra folle per un Paese come il Myanmar.
Come è stato gestito questo decennio precedente al golpe, dal punto di vista politico e istituzionale?
Io credo che non si possa capire questo processo se non si guardano le prime elezioni post gestione militare. Fin dalle prime elezioni, il primo governo di Aung San Suu Kyi fu messo fortemente in dubbio dall’establishment militare. Quindi, già dieci anni fa, c’è stato un tira e molla tra queste forze oscure e le riforme che Suu Kyi ha tentato di fare, tra cui quelle sul lavoro e i diritti sindacali e di sciopero, come anche le leggi sulla censura. Ci sono dei nodi che la premio Nobel non riesce a sciogliere. Il Myanmar va inquadrato in un contesto di transizione verso la democrazia che non si è conclusa. Utilizzando dei termini di scienza politica, si può dire che quella birmana era una democrazia procedurale, ma non sostanziale. Ci sono elezioni che tecnicamente potrebbero anche essere legali. Però poi non si trasformano in una democrazia compiuta, e questo a causa dei militari, che non vogliono che sia così. C’è uno scollamento, quindi, tra la maggior parte della popolazione e i militari, i quali a un certo punto, per rompere gli indugi, fanno un colpo di stato. Questo perché non possono più reggere un confronto con le istituzioni. Quindi si riappropriano delle istituzioni che hanno concesso.
Quello dei brogli elettorali era un pretesto?
Sì perché, ad aggravare la situazione, c’è il fatto che l’esercito birmano, nei dieci anni della cosiddetta democrazia, ha continuato a godere di vasti poteri nel Paese, e il controllo di ministeri del governo, ovvero esteri, interni e difesa. Quindi i gangli dello Stato sono sempre rimasti in mano ai militari. L’aggravante è che, dopo le repressioni contro i Rohingya del 2017, Aung San Suu Kyi ha coperto i crimini commessi dall’esercito in quelle che sono operazioni militari di pulizia etnica. Questo è un fatto, ma in Occidente non se ne parla mai. Sono decisioni del governo che lei ha vidimato. Se si pensa al numero di quelli emigrati in Bangladesh, paese a maggioranza musulmana, circa 600mila persone, si capisce che si parla di una pulizia etnica fatta col mortaio. Poi c’è da dire che Suu Kyi ha perso gran parte del sostegno internazionale, ma comunque ha governato con l’appoggio della cittadinanza. Perché al cittadino medio birmano in realtà non interessa molto dei musulmani.
Venendo alla politica estera, in questo decennio il Myanmar quali direttrici ha seguito?
La Birmania, che ha circa 2000 km di confine con la Rpc, è sempre stata nell’orbita di Pechino. Nel 2008, l’amministrazione Obama aveva tentato più volte di attirare il Myanmar nella propria orbita, ma senza successo. Per cui L’ultima amministrazione Obama, e poi quella di Trump hanno, di fatto, lasciato che quella fosse area di influenza della Cina. Oggi il Myanmar è sicuramente un punto di forza della Rpc, esattamente come la Corea del Nord.
C’è una differenza tra le reazioni: da un lato ci sono l’Occidente e l’Onu, che si sono schierate decisamente contro il golpe; dall’altra c’è la Cina, che ha detto che sono questioni interne.
Ma questo perché fa comodo alla Cina. Come non vuole che la comunità internazionale metta il becco negli affari interni cinesi, è coerente con i vicini.
Obama aveva tentato di attrarre il paese nella sua orbita e, con il Pivot to Asia, aveva avviato una politica pragmatica che partiva dal presupposto dell’inutilità delle sanzioni economiche senza la compresenza di un dialogo costruttivo con politici e militari locali. Però aveva tentato anche di avere un dialogo più ampio con i paesi dell’Asean, in quanto organizzazione di riferimento della regione. Tuttavia, le pressioni che il Dipartimento di Stato faceva sui membri dell’Asean per promuovere le riforme politiche in Myanmar venivano viste come un eccesso di ingerenza negli affari interni. Motivo per cui queste pressioni sono finite perché minavano il rapporto stesso tra Asean e Stati Uniti, diventato ostaggio di quanto avveniva in Birmania. Hanno quindi smesso di intromettersi nella politica, anche anti islamica, del governo.
Per la Cina, cambia qualcosa se ci sono i militari o se c’è Aung San Suu Kyi?
A Pechino interessa la stabilità, perché senza stabilità non ci sono affari. C’è una lunga frontiera, poi ha uno sbocco sull’Oceano indiano, che per la Cina è importante, perché gli consente di aggirare lo Stretto di Malacca e, quindi, di essere indipendente dai competitor che controllano quello stretto. C’è poi un importante oleodotto che collega la Cina con la Baia del Bengala, e questo significa trasporto e stoccaggio di materie prime, tra cui il petrolio. Quindi c’è una serie di questioni logistiche che la Cina, che ha bisogno di materie prime, dall’esterno non può fare a meno. Per questo la Cina ha fornito più volte un sostegno, anche politico e diplomatico, al vicino birmano. Ad esempio, nel 2007, insieme alla Russia di Putin, aveva messo il veto ad una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza, promossa dagli Usa, che proponeva sanzioni alla giunta militare. Secondo me, se anche questa volta, cercassero di passare dal Consiglio di Sicurezza, gli Usa troverebbero la porta chiusa. Non dimentichiamoci che Aung San Suu Kyi, circa tre o quattro anni fa, è andata in visita in Cina. Anche qui, luci e ombre su questa donna. Il capo dell’opposizione, premio Nobel per la pace, paladina dei diritti umani, che incontra il presidente cinese mi sembra un po’ bizzarro. Tra l’altro la Suu Kyi, quando andò evitò di parlare proprio di temi quali i diritti umani e le condizioni di un altro premio Nobel per la pace imprigionato in Cina, Liu Xiaobo.
Le sanzioni, secondo lei, sono utili ad abbattere il regime e ripristinare la democrazia?
Facciamo un parallelo con le sanzioni alla Russia per l’Ucraina. Dietro le sanzioni dell’Ue c’è una politica filo atlantica. Questo al di là delle questioni ideologiche. Io, però, sono sempre stato fortemente contrario alle sanzioni alla Russia, e non perché sia sostenitore di Putin. Perché penso che, nel lungo periodo, non diano risultati, ma siano bensì un boomerang. Io, storicamente, non ricordo una situazione internazionale che sia migliorata per le sanzioni. Basti pensare alla questione Israelo-palestinese, Cuba, l’Iraq e la Libia. I regimi non cadono per le sanzioni, anzi: vengono fortificati.
L’allontanamento degli Usa dalla Birmania è dovuto alla politica isolazionista di Trump?
Trump, al di là dell’America First, incarna un fenomeno più ampio. Oggi l’Occidente non si può più permettere di essere un poliziotto nel mondo, perché costa. Questo nonostante il fatto che gli Usa siano ancora la prima potenza militare. Però limitano questo tipo di operazioni, perché costano tantissimo.
Secondo lei il golpe può alterare i rapporti con i paesi dell’Asean?
Non credo. L’Asean non è come l’Unione Europea. Oltre al fatto che è un’organizzazione molto più orientata ai rapporti economici, nessuno dei paesi membri può mettersi a dare lezioni di democrazia al Myanmar. Bisogna inquadrare anche nel contesto regionale. Tra i paesi dell’Asean, chi possono vantare una forma di democrazia avanzata? Laos, Cambogia, Singapore, Malaysia, le Filippine, o la Thailandia secondo me non hanno intenzione di creare vespai democratici. Si tratta di trattati di amicizia e cooperazione che non vanno oltre le questioni economiche.