I più audaci parlano di riscossa, la maggior parte di semplice riallineamento. La sostanza è comunque la stessa: i partiti tradizionali, pur con dei giudizi sospesi, sono tornati. Le elezioni amministrative ci consegnano una fotografia del Paese abbastanza diversa da quella uscita dalle urne alle politiche di febbraio.
In tutti i capoluoghi e le grandi città interessate dal voto il testa a testa è stato tra gli esponenti delle due principali coalizioni. Centrodestra contro centrosinistra; e laddove non si è raggiunta una maggioranza al primo turno (quasi ovunque) il ballottaggio vedrà scontrarsi, come nella migliore tradizione, i favoriti della vigilia. In mezzo, un solo grande sconfitto: il Movimento 5 Stelle.
Marcia indietro per i Cinquestelle. Il non-partito di Grillo partiva con altissime aspettative; in questi mesi, però, un comportamento non sempre in linea con il volere della base, tra attacchi ciechi ed epurazioni, ha fatto sgretolare il clamoroso consenso ottenuto solo tre mesi fa. Così, contro ogni previsione, il crollo del Movimento è stato assai più consistente di un fisiologico calo, tipico di tutti i voti di protesta dopo il grande exploit. Nessun grillino, dunque, andrà ai ballottaggi; e nonostante Grillo parli di «sconfitta che sa di vittoria» la sensazione è che dalle parti di Genova ci si stia leccando le ferite. A Roma, l’avvocato Marcello De Vito si è fermato al 12,5% (quando a febbraio il Movimento aveva raggiunto il 27% dei consensi); un po’ meglio è andata a Ancona (dove alle politiche il M5S fece il “botto”) con Andrea Quattrini a quota 15%. Altrove un vero disastro: voti dimezzati ovunque, pochissimi i candidati che hanno superato il 10% (oltre Roma e Ancona, solo a Pisa e Massa) e programmi trionfalistici da riporre nel cassetto.
Il Pd si salva e rilancia. Chi, invece, viste le premesse, può ritenersi soddisfatto è il Partito democratico; qualcuno temeva il crollo, il risultato lo ha smentito. Bastano alcuni esempi. Il più vulnerabile sulla carta era Ignazio Marino, candidato sindaco della Capitale: schieratosi apertamente contro la linea Bersani durante le elezioni per il Presidente della Repubblica, sembrava non avere più l’appoggio del partito; invece Marino ha retto l’onda d’urto del giro di vite nel Pd ed è riuscito a staccare Alemanno di oltre dodici punti (superando quota 42%). Altro capitolo scottante per il centrosinistra era Siena: nel capoluogo toscano, lo scandalo Montepaschi portava a immaginare scenari funesti ma Bruno Valentini, da oltre trent’anni nel colosso bancario, è riuscito nell’impresa di salvare il salvabile. D’accordo, il centrosinistra dovrà attendere il ballottaggio per cantare vittoria (Valentini si è fermato al 39,6%) e il Pd è passato dal 34% delle politiche al 24,8% di ieri; ma l’aria che si respira oggi a Siena è quella dello scampato pericolo. Anche perché il mostro è stato sconfitto: quel Movimento 5 Stelle che aveva fatto di Mps la bandiera da sventolare contro il sistema dei vecchi partiti, che a febbraio aveva superato il 21% e che stavolta, invece, con l’informatico Michele Pinassi si è arenato a quota 8,5%.
Pdl di nuovo giù. Un po’ meno soddisfatto il fronte di centrodestra; la tendenza che vedeva Popolo della libertà e soci in rimonta sembra essersi bloccata di colpo. Per il momento l’onore è messo al sicuro, ma in tutti i ballottaggi principali la compagine di Berlusconi dovrà inseguire e il rischio del fallimento potrebbe essere solo rimandato di due settimane. Brescia è l’esempio più lampante: un porto sicuro dove però, stavolta, il sindaco uscente Paroli non solo vede allontanarsi la riconferma ma, a sorpresa, è stato scavalcato all’ultimo respiro da Emilio Del Bono, candidato del centrosinistra. Un calo generalizzato, quello del Pdl, che in via dell’Umiltà giustificano col crollo dell’affluenza ma, in vista del secondo turno, per invertire la tendenza servirà uno sforzo supplementare del Cavaliere.
Urne deserte. Già, l’assenteismo: il grande vincitore, la vera variabile impazzita. Quasi dappertutto, rispetto alla precedente tornata di amministrative, il calo dei votanti è stato senza precedenti: – 20% a Roma dove un elettore su due non è andato ai seggi (con l’affluenza ferma al 52,8%), addirittura -24,2% a Pisa (città del premier Letta, dove però il candidato Pd Filippeschi ce l’ha fatta al primo turno). Addirittura in tre piccoli Comuni (Roccaforte del Greco, vicino Reggio Calabria; Montefusco, nell’avellinese; Futani, in provincia di Salerno) non si è raggiunto il quorum del 50% più uno e si dovrà tornare alle urne. Un referendum negativo sul nuovo governo e sulle larghe intese? L’esito del voto sembra smentire tale ricostruzione; a meno che in molti siano andati a votare “turandosi il naso”. In quel caso, non è detto che al ballottaggio gli equilibri non cambino. Anche un distacco sensibile, in presenza di così pochi votanti, in termini assoluti non mette al sicuro nessuno; a Roma, ad esempio, il 12% in più di Marino si traduce in “soli” 124mila voti di scarto. Premessa più che sufficiente per rendere interessante anche il voto del 9 e 10 giugno.
Marcello Gelardini