Sono passati venti anni dalla firma del Trattato di Nizza. Dopo l’approvazione del Consiglio europeo, il 26 febbraio del 2001 quindici Stati membri (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia) siglarono un accordo che riuscì a modificare il meccanismo di funzionamento della Unione europea, ma senza recepire la Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, approvata sempre a Nizza nel dicembre del 2000.
Entrato in vigore il 1 febbraio del 2003, il testo fu il frutto di un compromesso: non rinnegò il metodo intergovernativo, con i rappresentanti degli esecutivi nazionali a prendere le decisioni più rilevanti, ma estese almeno il voto a maggioranza qualificata in Consiglio, perché il raggiungimento dell’unanimità, prima richiesta per quasi tutte le deliberazioni, risultava sempre più problematico in una Europa che si allargava velocemente.
Tuttavia è sulla democratizzazione delle istituzioni comunitarie che a Nizza si provò a fare il vero e proprio cambio di passo. Ampliando i poteri legislativi del Parlamento europeo, con una estensione del meccanismo della co-decisione, si volle limitare il “vulnus di democraticità” – come diceva il giurista Stefano Rodotà- presente nel funzionamento delle istituzioni comunitarie. All’organo dove siedono i rappresentanti dei cittadini, inoltre, fu dato il compito di fornire un parere, anche se non vincolante, in caso di violazione dei diritti fondamentali in uno Stato membro. Il Trattato, poi, garantì la possibilità di cooperazioni rafforzate su base volontaria in politica estera e sicurezza comune. Il presidente francese Emmanuel Macron sottolinea oggi come “ebbe il torto di non renderle obbligatorie”.