Alberto Pellai è un medico psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore all’Università degli Studi di Milano. Ha chiarito a Lumsanews la natura dei rischi per i bambini in rete e la centralità della figura genitoriale nelle dinamiche di esposizione ai social dei minori.
Perché i bambini sono più esposti ai rischi della rete? Si devono considerare le differenze dal punto di vista cerebrale tra un bambino e un adulto?
“La loro vulnerabilità deriva dalla loro immaturità cognitiva a gestire la complessità della vita online, che richiede un costante lavoro di integrazione tra la parte emotiva del cervello – quella che si emoziona, che si eccita, che cerca la gratificazione immediata – e la parte cognitiva, quella che deve riflettere su rischi e che quindi può individuare quando una cosa è molto pericolosa. Più si è piccoli più si è molto sbilanciati sulla parte emotiva, perché il cervello matura più lentamente sulla parte cognitiva. Nell’online, non essendoci la supervisione dell’ adulto, il bambino si muove in un territorio che può essere anche molto pericoloso, rispetto al quale il bambino non ha le competenze di percezione del rischio”.
Antonella possedeva diversi account social e i genitori hanno dichiarato di non aver mai temuto particolarmente questa esposizione. La responsabilità dell’accaduto può essere attribuita a loro?
“Per crescere un figlio ci vuole un ‘villaggio’, il genitore mette il suo sguardo educativo sulle cose e protegge il proprio figlio in base alle cose che sa fare e ciò che percepisce come utile e necessario. Non esiste che un genitore sappia fare tutto, ed è per questo che nel ‘villaggio reale’ c’è il concetto di ‘genitorialità sociale’ e il progetto educativo è condiviso in alleanza con tutte le altre agenzie del territorio. Probabilmente i genitori sottostimavano rischi e pericolosità associati ad attività online che non sono adeguate per una bambina così piccola. Il problema è che l’online non ha intercettato solo questa bambina, ma ne ha intercettati a milioni; ha ostruito una sorta di sabbia mobile dalla quale non riesci più a venirne fuori perché entri in attività che non sono pensate per un bambino di 10 o 11 anni”.
Limitare l’uso dei social a un bambino può essere un compito piuttosto delicato per un adulto. Non si rischia di ottenere l’effetto opposto, favorendo la spregiudicatezza dei minori in rete?
“Io credo che sia necessaria una ‘mente adulta comune’, se gli adulti sono ben allineati, hanno una visione comune di cosa è adatto a una certa età e cosa non lo è, e insieme dicono ai figli ‘questa cosa non va bene’. A quel punto un figlio che non entra nei social non è l’unico escluso perché si trova in compagnia di altri coetanei a cui i genitori hanno detto lo stesso”.
Cosa consiglia per risolvere il problema dei minori in rete?
“Credo che tutto quello che stiamo dicendo noi specialisti dovrebbe ispirare il legislatore affinché ci sia una legislazione che tuteli i diritti di protezione di un minore. Ai genitori direi che è necessario formarsi e informarsi su una parte così importante della vita dei propri figli”.
Potrebbe essere utile anche formare adulti e minori all’uso corretto dei social?
“L’educazione digitale è fondamentale sia per gli adulti che per i minori, però deve essere fatta prima, il che significa che noi dobbiamo avere la chiarezza su quand’è l’entry point, cioè qual è il momento in cui il bambino entra nella vita online. Avendo chiarito qual è il momento, nel tempo precedente si fa un lungo lavoro di preparazione e formazione, affinché quando poi il bambino deve entrare lì dentro ha davvero competenze e si sa spendere bene in quel territorio”.