Lo Statuto dei Lavoratori compie mezzo secolo. Aspettative sindacali, divieto di riprese senza il consenso dei lavoratori e di accertamenti sanitari direttamente da parte aziendale, libertà di opinione, divieto di demansionamento e soprattutto diritto al reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo erano le principali novità introdotte dalla legge 20 maggio 1970, numero 300. Sull’attualità di quel provvedimento e su una sua possibile riforma, Lumsanews ha intervistato il professor Giuseppe Tognon, ex sottosegretario per l’università e per la ricerca scientifica e tecnologica nel governo Prodi I, ordinario di Storia dell’educazione e Pedagogia alla Lumsa.
Professor Tognon, cinquant’anni fa lo Statuto. È ancora uno strumento attuale?
«È la base di mezzo secolo di affermazione dei diritti e dei doveri, relativamente a quanto la Costituzione dice. Nasce dal tentativo di avvicinare la società italiana che usciva da un periodo di boom economico alle masse operaie. L’Italia di allora era ancora un’Italia industriale ed agricola, oggi non è più così: la grande industria e la politica industriale sono cambiate molto, l’agricoltura si è trasformata. Le tecnologie, la comunicazione, la salute hanno fatto emergere in primo piano altri diritti rispetto a quello del lavoro nelle fabbriche».
Quale è il significato più profondo di questa legge?
«Se non avessimo avuto lo Statuto dei lavoratori, oggi non avremmo memoria di quello che è stato il sacrificio di milioni di operai del Sud emigrati al Nord, che hanno consentito all’Italia di aprire una stagione come quella degli anni 70 che è stata una stagione durissima. È stata la stagione delle ultime grandi riforme fatte dal Parlamento come i decreti della scuola, la riforma del fisco, la riforma del sistema sanitario nazionale, la chiusura dei manicomi, la legge sulle carceri ed è stata anche la grande stagione del terrorismo. Gli anni ’70 sono stati aperti dallo Statuto dei lavoratori che quindi riveste una forza simbolica nella storia della Repubblica».
Di quello spirito, di quella società, che cosa è rimasto?
«Non c’è più la Repubblica dei partiti. Gli anni ’70 hanno messo in crisi il patto costituzionale tra grandi partiti, in particolare la Democrazia cristiana, il Partito comunista e il Partito socialista che avevano costruito le basi della Repubblica. Noi oggi ci poniamo il problema di chiedere chi rappresenti i lavoratori. E soprattutto vediamo che le grandi masse dei lavoratori, soprattutto i giovani, non hanno più rappresentanza. La crisi ha investito i sindacati come ha investito i partiti».
E che cosa invece è cambiato?
«Oggi parliamo di una società senza lavoro, jobless, però noi sappiamo che i bisogni delle persone sono aumentati e che i diritti sul luogo del lavoro si sono complicati perché sono cambiate anche le condizioni del lavoro. Oggi il sistema capitalistico ha terziarizzato il lavoro, ha reso gli individui più soli e più sfiduciati rispetto alla possibilità che lo Stato rappresenti i diritti di tutti. Il lavoro è cambiato ma la domanda di diritti è aumentata. D’altra parte un diritto che non sia ancorato al dovere del lavoro e alla necessità che il lavoro resti alla base del bene comune, un diritto del genere è sospeso nel vuoto. La nostra società deve riappropriarsi di qui valori-base».
Servirebbe un nuovo strumento?
«Oggi si parla molto di un nuovo patto per il lavoro nella società. Un unico strumento non può bastare più, ma se si fa un nuovo patto il punto di partenza deve essere quello Statuto che va trasformato mantenendone i principi costituzionali. Non può esserci, a oggi, uno strumento unico perché non ci sono le premesse per arrivare a un patto così esteso come quello. Manca anche una legislazione europea comune sul lavoro, perché i rapporti tra produzione e tutela del lavoro nei vari Stati hanno seguito le dinamiche industriali dei singoli Stati».