La Corea del sud è l’esempio preso in considerazione da più attori internazionali sulla lotta al coronavirus. Ma è anche il monito, tangibile, di quanto possa essere pericolosa una mancanza di disciplina da parte dei cittadini, durante l’allentamento delle misure del lockdown. Nelle ultime settimane la curva del contagio si era azzerata, ma un focolaio scoppiato in un quartiere di Seul ha portato il numero di nuovi contagiati a 79, a fronte di un totale di 10.874 casi.
A metà febbraio, la Corea del sud era il secondo Paese al mondo per numeri di contagio da Covid-19. Tutto era partito dalla setta religiosa di Shincheonji, dove il paziente 1, una donna di 60 anni circa, si sarebbe infettata durante un viaggio a Wuhan e, nonostante i lievi sintomi di malattia, ha continuato a predicare in diverse chiese della setta, aumentando così i contagi. Il cluster legato alla Chiesa di Shincheonji è stato fortemente polemizzato dai sudcoreani, tanto da avviare una petizione per chiudere la controversa setta religiosa. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, nel placare le polemiche, ha deciso di dotarsi di un sistema di controllo di massa, con una massiccia campagna di tamponi e un’intensa tracciabilità dei contatti. Il sistema di tracciamento adottato dalla Casa Blu ha avuto gli effetti sperati: ridurre il numero dei contagi, azzerandoli.
Ma ora Seul deve fare i conti con un altro epicentro delle infezioni, vedendosi annullare tutti gli sforzi delle settimane precedenti. Il picco dei nuovi casi arriva proprio quando il governo sudcoreano ha allentato la scorsa settimana alcune restrizioni di allontanamento sociale, riaprendo completamente scuole e imprese, in una transizione dall’intensivo allontanamento sociale al distanziamento nella vita quotidiana. Ciononostante, la Corea ha continuato a lavorare sul suo metodo: convivere con il virus facendo isolamenti mirati e tracciamento dei contatti. I falsi positivi o gli asintomatici possono essere però la causa dello scoppio di un nuovo cluster, nato nel quartiere della movida di Seul, Itaewon.
La sera del 30 aprile, un ragazzo ventinovenne di Yongin, città a una quarantina di chilometri a sud di Seul, insieme a un amico, è andato in cinque club dell’area cool di Seul, entrando in contatto con migliaia di persone. Per garantire la convivenza con il virus, molti locali notturni chiedono di lasciare il proprio nome all’ingresso: in questo modo è più rapido, in caso di necessità, risalire a tutti i presenti. Tuttavia, il sistema di tracciamento sta incontrando qualche difficoltà: nel quartiere della movida sudcoreana ci sono anche diversi locali gay molto frequentati. In un Paese dove l’omosessualità non è illegale, ma non vi è alcuna legge che tutela la discriminazione su base sessuale, soprattutto nei luoghi di lavoro, molte persone preferiscono non vivere la propria omosessualità liberamente. Per questo capita che i clienti dei bar e locali di Itaewon si registrino all’ingresso con nomi falsi, mandando in crisi il sistema di controllo. I tracciatori stanno isolando in tutto una cinquantina di persone che in questi giorni sono state in contatto con il ragazzo di Yongin, ma all’appello mancano 1.500 persone e sarebbero circa 7.200 quelle che hanno visitato i locali incriminati dal 30 aprile al 5 maggio.
“L’emergenza non sarà finita finché non sarà davvero finita” ha affermato il presidente sudcoreano Moon, appoggiando qualsiasi mezzo per combattere il coronavirus. L’amministrazione della capitale sudcoreana ha per questo imposto la chiusura di bar e locali notturni a data da destinarsi, invitando tutti coloro che hanno visitato l’area di Itaewon a sottoporsi a test. “La negligenza può portare ad un’esplosione di infezioni”, ha detto il sindaco di Seul Park Won-soon, spiegando che le chiusure sono al momento la misura necessaria. Intanto in Cina, il vice direttore della Commissione sanitaria nazionale, Li Bin, ha spiegato come Pechino non fosse pronta ad affrontare in modo adeguato la pandemia.