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HomeSpettacoli “Odiato da McCartney e composto tra le liti”: ‘Let it be’ dei Beatles compie 50 anni

"Let it be" compie 50 anni
l'ultimo album dei Beatles
"Erano ispirati ma divisi"

Intervista al critico Ernesto Assante

"I loro capolavori figli della tensione"

di Giulio Seminara07 Maggio 2020
07 Maggio 2020

Articoli e fotografie del 1964 raccolte da Arcana nel libro 'The Beatles in Italy' di Franco Brizi e Maurizio Becker, che spiega chi favori' il lancio dei Beatles in Italia e racconta anche dei molti giornalisti ed etichette che non credevano nel boom della band. ANSA/FRANCO BRIZI +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

Cinquant’anni fa usciva uno straordinario album “bistrattato dai suoi stessi autori”, i componenti di un gruppo in fase di scioglimento, giunti ormai al “tutti contro tutti”. Si tratta di Let it be, ultimo cd pubblicato dai Beatles nel 1970, la cui title track è una delle canzoni più famose di sempre. Ne parliamo con Ernesto Assante, storico critico musicale.

Assante, che album è stato Let it be?
“Il lavoro più bistrattato dagli stessi Beatles, in particolare da Paul McCartney, che detestava gli arrangiamenti realizzati dal produttore Phil Spector. Si è rischiato pure che questo album non uscisse, a causa delle divergenze artistiche. L’insoddisfazione è sfociata nel 2003 in Let It Be… Naked, la riproposizione delle canzoni del disco senza le sovraincisioni, dalle orchestre ai cori. Ma è stato un album magnifico, molto apprezzato dal pubblico, con alcuni capolavori come Across the Universe, The Long and Winding Road e la stessa Let it be”.

È stato il disco testamento del gruppo?
“No, semmai l’album postumo. Pubblicato per ultimo, anche se composto prima di Abbey Road, il vero testamento dei Beatles, Let it be è l’album della crisi. La sua realizzazione coincide con il momento di maggiore tensione dentro il gruppo: ciascuno esprimeva la sua arte in autonomia, e forse proprio per questo è riuscito così bene. I Fab Four erano ispiratissimi, basti pensare ai loro lavori da solisti immediatamente successivi all’uscita dell’album, tutte grandi prove. La tensione li ha motivati ed esaltati. Non è un caso che la fase della loro maturità artistica coincide con l’apice dello scontro interno e lo scioglimento del gruppo”.

Quali furono le cause di tensione?
“Le principali sono state tre: l’insoddisfazione di George Harrison, che si sentiva sottovalutato, la prepotenza di Paul McCartney, che voleva imporre agli altri di suonare live e senza sovraincisioni, e la ricerca di altro da parte di John Lennon, già proiettato verso nuove sperimentazioni e influenzato da Yoko Ono. Ma già dal 1967 ciascuno iniziò ad avere una vita separata rispetto agli altri e non valse più il tutti per uno“.

La rottura definitiva avvenne nel 1970. Lei ritiene che fosse inevitabile?
“Sono tra i pochi a credere che ci fossero i margini per una riconciliazione, nonostante gli scontri. Nel documentario Let It Be – Un giorno con i Beatles, uscito quell’anno, si percepisce un legame artistico ancora forte. Credo che se Paul McCartney non avesse fatto causa i quattro sarebbero tornati insieme. Peccato che la litigiosità di quel periodo, oltre ad averli fatti esprimere al meglio, li ha divisi per sempre. Il punto è che i Beatles erano innanzitutto un gruppo di grandi amici, al contrario dei Pink Floyd e dei Who, e quando ci si vuole bene le liti e i rancori diventano più profondi”.

Cosa resta oggi dei Beatles?
“Tutto, senza di loro non ci sarebbe il 90% della musica contemporanea e tu saresti vestito e pettinato diversamente. I libri di storia non hanno ancora colto la portata sociale e culturale, prima ancora che musicale, dei Beatles. Non parliamo solo di una band ma dello strumento con cui si è manifestato il cambiamento della società. Dal rapporto con i genitori e la spiritualità orientale all’uso delle droghe e la moda: i Fab Four hanno inventato il mondo moderno”.

Qualche esperienza musicale successiva ha avuto analogie con i Beatles o un impatto simile?
“Nessuno. Abbiamo avuto Michael Jackson, Madonna e Bruce Springsteen, ma non è più successo che ovunque nel mondo si ascoltasse la stessa canzone. L’impatto dei Beatles è stato unico, nonostante l’assenza della televisione di massa, della rete e dei social. Dopo di loro la musica si è divisa in tante tribù, ciascuno ha iniziato a fare e ascoltare la sua”.

Esiste un filone “politico” dei Beatles?
“Propriamente politico no. Ma erano libertari e democratici, basti pensare alla loro boutique Apple a Londra, quasi un esperimento di commercio socialista, fallito in pochi mesi. Hanno cambiato il rapporto tra giovani e società, modernizzandola. E furono avanguardia in tante cose: basti pensare allo spiritualismo di Lennon e Harrison, frequentatori di un’India ai tempi quasi sconosciuta. E Paul McCartney è vegetariano da allora”.

Spesso si ironizza su una presunta inutilità di Ringo Starr nel gruppo, come mai? 
“Un grande abbaglio: lui era il trait d’union della band, in quanto amico del cuore di tutti gli altri, ed è stato un batterista geniale con una tecnica personalissima che ha caratterizzato tutto il suono dei Beatles. Nel 1995 il gruppo, orfano di John Lennon (assassinato nel 1980, ndr), ha realizzato un’antology con dentro un inedito scritto proprio da Lennon: Free as a bird. Il pezzo inizia con una particolare battuta di batteria, in quel momento capisci che si tratta dei Ringo Starr, che si tratta dei Beatles.

Lucio Battisti è stato l’epigono italiano dei Beatles?
“Certamente, è stato quello che ha importato quel soundwriting, costruendo la canzone moderna italiana. Oggi l’italiano più beatlesiano è Cesare Cremonini, uno dei nostri migliori autori”.

Se lei potesse portare sulla Luna soltanto tre canzoni dei Beatles quali sceglierebbe?
“Impossibile scegliere: non andrei sulla Luna, mi spiace”.

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