Le province esistono ancora, ma sono diventate enti di secondo grado. Dopo la riforma Delrio del 2014, sono state – di fatto – depotenziate a livello economico, creando un deficit democratico e aumentando i passaggi burocratici.
Questo è il risultato del rapporto Openpolis, fatto in collaborazione con la trasmissione Report, la cui inchiesta, a firma Bernardo Iovene, andrà in onda stasera su Rai3.
Il documento evidenzia tre punti critici: “l’elezione indiretta del presidente e del consiglio provinciale, l’incertezza del quadro finanziario in cui operano e la difficoltà di riordinare le funzioni di area vasta nel nuovo sistema. Cioè quelle che riguardano territori troppo ampi per essere gestiti a livello di singolo Comune, ma allo stesso tempo troppo piccoli per attribuirne le funzioni direttamente alla Regione o allo Stato centrale”.
La delegittimazione e il deficit democratico
La riforma è stata il frutto di una campagna “antipolitica” e “anticasta”. L’ente provincia è rimasto comunque in piedi e incaricato di competenze fondamentali come i collegamenti stradali e la manutenzione dell’edilizia scolastica, le quali, però, sono portate avanti “senza una guida politica chiara”. Soprattutto perché chi è a capo di queste istituzioni rischia un processo di delegittimazione e deresponsabilizzazione, dovendo prendere le decisioni “nel tempo che avanza da altri incarichi”. Inoltre, siccome la provincia è un ente di secondo livello, i suoi componenti non vengono eletti direttamente e perciò non devono nemmeno “rendere conto ai cittadini, nelle urne, di azioni e scelte intraprese”.
La provincia non è quindi messa nelle condizioni di fare realmente gli interessi del suo territorio: “Il presidente non ha più una squadra operativa su cui contare, assessori a tempo pieno cui affidare le diverse materie. Deve lavorare in solitaria, delegando responsabilità fondamentali a consiglieri a mezzo servizio”.
Prima del 2014, il consiglio provinciale e il presidente della provincia erano eletti ogni cinque anni dai residenti. Adesso, ogni due anni, sono i consiglieri comunali e i sindaci a eleggere, al loro interno, il consiglio provinciale. Ogni quattro scelgono il presidente della provincia, che deve essere necessariamente un sindaco con almeno 18 mesi di mandato di fronte a sé.
La mancanza di risorse
Questa delegittimazione politica ha portato lo Stato a imporre tagli via via crescenti alle risorse delle province. Uno degli obiettivi della riforma era infatti quello di ridurne le funzioni e, in parallelo, di diminuirne i costi. Le province si sono viste privare di funzioni fondamentali. Tra quelle rimaste, la gestione delle strade provinciali e la manutenzione dell’edilizia scolastica. Per la prima, parliamo di 130mila chilometri di strade e 30mila tra ponti, viadotti e gallerie in tutto il territorio italiano. “Riguardo alla seconda competenza, sono 5.179 gli edifici scolastici in gestione alle province, il 41% dei quali si trova in zone a rischio sismico”.
Tuttavia i tagli alle province sono cominciati ben prima della riforma Delrio. Nei primi anni ’10, sia l’ultimo governo Berlusconi sia quello di Monti, hanno puntato al risparmio intervenendo sugli enti intermedi.
L’effetto più grave, secondo il rapporto, riguarda le tasse. La riforma del federalismo fiscale del 2009 ha influito sul sistema perequativo per fare sì che si riducesse il gap tra province più ricche e più povere. Queste ultime dovrebbero avere un’entrata erariale di un miliardo di euro. Tuttavia, proprio a causa dei tagli, rispetto a questa cifra devono restituire ogni anno allo Stato 242 milioni di euro. La capacità di spesa di questi enti intermedi è crollata, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti che, tra 2008 e 2017, sono diminuiti del 70%. Paradossalmente, e in totale contrasto con gli obiettivi della riforma Delrio, sono aumentate le spese per le funzioni amministrative: “+47% quelle correnti e +39% quelle in conto capitale”.
L’aspetto su cui puntava la riforma era semplificare le funzioni delle province eliminando un livello amministrativo: “meno burocrazia, meno conflitti di competenze e sovrapposizioni tra enti”. Però, “nella pratica concreta, le cose sono andate diversamente.” Redistribuire le competenze tolte alle province è stato un percorso complesso e diverso da Regione a Regione. Spesso ci si è trovati a “spacchettare le funzioni tra Comuni, Regioni ed enti intermedi”.
È intervenuto poi il decreto spending review che ha portato all’accorpamento di più province, creando aree più vaste con l’obiettivo di risparmiare ancora. Il numero degli enti intermedi sarebbe sceso del 37%. Tuttavia il decreto è stato bocciato dalla Corte Costituzionale. Per quanto riguarda le province ci si attiene allora alla riforma Delrio, che però era considerata transitoria in attesa dell’abolizione definitiva degli enti.
“I tempi di riallocare le funzioni si sono rivelati molto più lunghi di quanto previsto inizialmente”. La difficoltà è stata riscontrata soprattutto nei lunghi iter di approvazione delle leggi regionali di riordino, “segno della difficoltà di riattribuire le competenze delle vecchie province”, tanto da portare la Corte dei conti a far riferimento a una “diffusa ritrosia” delle regioni a legiferare sul riassetto delle funzioni. Solo dopo l’introduzione di sanzioni il processo si è velocizzato: 500 giorni per riordinare le competenze. È questo il tempo impiegato, in media, da ogni Regione. Il Lazio ha registrato il dato più alto: 633 giorni.
Essendo materia di competenza regionale, ogni Regione ha seguito strade diverse. In linea generale, secondo il report, “quelle settentrionali hanno spesso cercato di mantenere lo status quo precedente alla riforma” mentre quelle del centro-sud (la maggioranza) hanno invece riaccentrato le funzioni delle province in capo alla stessa Regione.