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HomeEsteri Il caso dell’agente FBI, la famiglia: “Morto in carcere iraniano”. Trump e Teheran: “No”

Il mistero dell'agente FBI
"Morto in carcere in Iran"
Ma Trump e Teheran negano

Robert Levinson era scomparso nel 2007

Per i familiari è deceduto recentemente

di Giulio Seminara26 Marzo 2020
26 Marzo 2020

Intrigo internazionale sull’asse Stati Uniti-Iran. La famiglia di Robert Levinson, ex agente dell’Fbi di 72 anni diventato tristemente celebre come l’ostaggio americano detenuto più a lungo, ha annunciato ieri la sua morte. Secondo i parenti Levinson, di cui si sono perse le tracce nel 2007 in Iran, dove si trovava per lavoro, è morto “mentre si trovava in stato di detenzione” in quel Paese, circostanza finora sempre smentita dalle autorità iraniane. Sono passati 13 anni dal momento della sua scomparsa.

In un comunicato la famiglia di Levinson così dichiara: “Recentemente abbiamo ricevuto informazioni da dirigenti americani che hanno indotto sia loro che noi a concludere che il nostro meraviglioso marito e padre sia morto. Non sappiamo quando o come, ma solo che è successo prima della pandemia da Coronavirus”. Questa notizia non sembra aver convinto il Presidente americano Donald Trump, che oggi in una conferenza stampa dedicata al Covid-19 è intervenuto sull’affaire Levinson: “Le cose non sembravano andare bene e lui era malato, ma non accetto che sia morto. A noi (membri dell’amministrazione americana, ndr) non hanno detto che lui è morto, anche se un sacco di persone pensano che lo sia”.

Eppure la versione ufficiale dell’Iran nega, sin dal 2007, di essere a conoscenza del destino di Levinson, scomparso il 9 marzo di quell’anno mentre si trovava nell’isola di Kish. Inizialmente si pensava che l’americano, con all’attivo 22 anni in Fbi e distintosi sul campo in operazioni contro la mafia italiana e russa, fosse su quell’isola per conto di un’azienda privata: ma nel 2013 l’Associated Press ha rivelato che Levinson si trovava in Iran perché in missione per la Cia. Da allora la sua famiglia ha ricevuto 2,5 milioni di dollari l’anno dalla Cia, tramite un accordo siglato per impedire una causa che avrebbe potuto svelare i dettagli della sua missione sull’isola iraniana. Invece diversi analisti dell’agenzia di spionaggio americana coinvolti nella vicenda sono stati licenziati o sottoposti a provvedimenti disciplinari.

La famiglia nel 2011 aveva reso pubbliche alcune immagini di Levinson nelle quali l’ex agente Fbi, con indosso una tuta arancione simile a quella dei detenuti nella prigione americana di Guantanamo, appare visibilmente trascurato e dimagrito, con lunga barba incolta e capelli lunghi. I parenti, sempre in quell’occasione, anche diffuso un video nel quale l’ostaggio affermava di essere detenuto in quella prigione da tre anni e mezzo e si lamentava delle sue cattive condizioni di salute. D’altronde è appurato che soffrisse di diabete, gotta e ipertensione.
Alireza Miryousefi, portavoce della missione umanitaria in Iran presso le Nazioni Unite, ha dichiarato ieri che il paese islamico mantiene la linea di sempre: estraneità totale rispetto al destino di Levinson, nella certezza che l’ex agente Fbi “non è un detenuto iraniano”. Anche se appena lo scorso novembre Teheran aveva ammesso di avere ancora un caso aperto presso la sua Corte Rivoluzionaria.
La famiglia, nel suo comunicato, ha anche puntato il dito contro il proprio Paese, reo di non aver dato priorità al salvataggio di Levinson. In particolare i parenti accusano “chi nel governo americano per molti anni ha lo ripetutamente tralasciato, e che per questo andrà incontro alla giustizia”.

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