HomeCronaca La Telecamorra all’assalto del sistema radiotelevisivo locale. Viaggio in Campania, dove la criminalità organizzata si è impadronita dell’etere

La Telecamorra all’assalto del sistema radiotelevisivo locale. Viaggio in Campania, dove la criminalità organizzata si è impadronita dell’etere

di Marcello Gelardini09 Novembre 2012
09 Novembre 2012

In Campania c’è un fenomeno che si vede e si sente; ma è come se non ci fosse. Parliamo di quella che è stata definita la “Telecamorra”. È infatti in corso una vera e propria scalata ai media di stampo imprenditoriale; solo che, questa volta, non si tratta di un gruppo finanziario o di un tycoon rampante a voler fare l’affare; qui il protagonista è un sistema, anzi: “O’ Sistema”, la camorra.

Con il termine “Telecamorra” ci riferiamo banalmente alla criminalità organizzata all’assalto delle televisioni e delle radio locali; ma sotto quel nome si nasconde un universo di illeciti che interessano, in un modo o nell’altro, tutti gli aspetti collegati al mondo dell’informazione; a partire dal mercato delle frequenze, sottratte abusivamente allo Stato direttamente dai clan camorristici.

Da alcuni anni il panorama radiotelevisivo campano è diventato terra di conquista; segno ulteriore di come le mafie si stiano trasformando da spietati e sanguinari gruppi di fuoco a holding economiche vogliose di controllare ogni settore del tessuto sociale in cui si trovano ad operare.
Al centro del mirino ci sono proprio i network, in passato combattuti e minacciati perché accusati di “rovinare il lavoro”, rendendo visibile a tutti il malaffare.Un pericolo che, in un secondo momento, è stato visto come un’opportunità: la possibilità di arrivare a un gran numero di persone; il modo più semplice e efficace per sviluppare un pensiero comune che, in maniera meccanica, inducesse la gente a concepire la camorra come qualcosa di consueto, accettabile, quasi la “normalità”.

Ma c’è di più, perché le sfaccettature del fenomeno sono molteplici. Basti pensare ai cantanti cosiddetti neomelodici (radicati in tutto il Mezzogiorno, soprattutto a Napoli e dintorni): un business dietro cui si celano diverse possibilità di crescita per le organizzazioni criminali; un indotto immenso che permette di creare consenso sociale, ingraziandosi una comunità semplicemente producendo e sponsorizzando l’artista di casa, ma soprattutto che consente di gestire il mercato del lavoro.

Proprio la possibilità di diventare uffici di collocamento sommersi è per i clan una delle spinte principali ad impossessarsi dei media. Attraverso una sapiente elargizione di favori, si può creare riconoscenza e, di conseguenza, sudditanza psicologica; quella “inconsapevole sottomissione” che gli permetterà di “operare” sul territorio senza timori.

Se, poi, a questo si accompagna un controllo strategico delle notizie e la possibilità di trasformare il sistema radiotelevisivo locale in una vera e propria miniera di denaro, allora si può veramente capire perché la camorra ultimamente si stia concentrando su un settore così specifico e, per certi versi, ristretto (soprattutto se si considerano i progetti che solitamente fanno le organizzazioni criminali, mai limitati ad ambiti specifici ma inglobanti il più possibile tutto ciò che le circonda). Una delle dimostrazioni più evidenti è rappresentata dall’indotto derivante dalla raccolta pubblicitaria: se a livello nazionale è ragione di vita per molti editori, a livello regionale diventa (anche) il mezzo più facile per controllare l’intera economia del territorio. Non è un caso che, da tutte le inchieste della magistratura effettuate sul fenomeno, è emerso che i clan giustificavano i proventi dell’attività estorsiva inserendoli in bilancio come entrate derivanti dall’acquisto di spazi promozionali da parte di privati (gli stessi soggetti vittima del racket, costretti a versare ingenti somme di denaro sui conti delle concessionarie di proprietà dei clan).

Un fenomeno di cui però si sa poco e che, invece, muove i primi passi già negli anni novanta con una serie di piccoli editori che iniziano ad accaparrarsi spazi televisivi. Apparentemente assistiamo alla nascita di nuove realtà locali a gestione più o meno familiare; in realtà, dietro quei nomi, si nascondono i clan camorristici.

Inizialmente le tv private venivano aperte esclusivamente per dimostrare alla propria comunità chi fosse il padrone; quando però i clan si accorgono che il mondo della tv in primis e quello della radio in secondo luogo si sarebbero potuti trasformare in grandi business le cose cambiano: inizia l’assalto vero e proprio, studiato e gestito nei minimi particolari.
Anche per questo il fenomeno è diventato sempre più “fluido” e difficile da individuare. Attualmente abbiamo un quadro piuttosto complesso; così, alla guida delle società proprietarie delle frequenze, troviamo sia prestanome dalla fedina penale “pulita” (ma che, al contrario, rappresentano l’interfaccia dei clan) sia familiari e parenti dei boss che operano in tutto e per tutto per loro conto; questo comporta delle evidenti difficoltà d’indagine e non sempre si riesce a capire se una tv o una radio locale sia finanziata con mezzi leciti o meno. Molti magistrati hanno proposto di estendere l’obbligo della certificazione antimafia anche per gli operatori di questo settore; il che agevolerebbe non poco le indagini.

Perché in qualche modo il fenomeno va arginato visto che, grazie alle televisioni, i clan si stanno mimetizzando ancora di più riuscendo a fare quel che gli pare; a partire, come accennato, dalla gestione del mercato del lavoro e dalla possibilità di vantare fatturati leciti, frutto delle tante attività commerciali che gravitano attorno al mondo dei media; un modo innovativo di riciclare denaro sporco: lo stesso denaro che al fisco risulterà, invece, del tutto legittimo. Assistiamo alla trasformazione dei mezzi di comunicazione in grandi lavanderie per quei soldi frutto di attività criminali; attività che recano notevoli danni alla società, imponendo una drastica compressione del pluralismo dell’informazione e, fatalmente, anche alle prospettive occupazionali di  un settore già messo a dura prova dalla crisi economica.

Ma il danno maggiore ricade senza dubbio sullo Stato: negli anni, soprattutto dopo il passaggio al digitale terrestre, il valore delle frequenze è lievitato ed è aumentata la possibilità di impossessarsi di un pezzettino di etere (la proporzione vuole che laddove un tempo trovava spazio un solo canale televisivo oggi lo spazio disponibile permette a cinque emittenti diverse di “esserci” contemporaneamente).

Questa rivoluzione ha fatto sì che si andasse a costituire una “cricca delle telecomunicazioni” che ha letteralmente occupato frequenze di proprietà dello stato; alcuni episodi sono tanto significativi quanto sconcertanti: parliamo dell’occupazione, accertata da indagini della magistratura, di frequenze riservate agli organi istituzionali, ai militari, addirittura alla NATO; gesti simbolici per dimostrare come il potere camorristico possa arrivare ovunque nonché un danno all’erario che, complessivamente, è stato stimato attorno al mezzo miliardo di euro.
Questo spiega anche perché, attraversando le province campane, capita sempre più spesso che le trasmissioni dei network nazionali saltino e s’inseriscano, sulle stesse frequenze, le trasmissioni delle radio “camorriste”.

Un senso di onnipotenza che ha portato la camorra a varcare, attraverso le radio e le tv, anche le porte del carcere in maniera tanto disinvolta quanto apparentemente facile; dalle indagini è emerso  che, per comunicare con i propri affiliati dietro le sbarre, i clan inviassero messaggi durante le trasmissioni (soprattutto radiofoniche) utilizzando degli speciali codici, interpretabili solamente dal destinatario; un aspetto sottovalutato che, però, potrebbe essere il grimaldello con cui la criminalità organizzata provi ad uscire dalla dimensione locale per tentare l’assalto all’emittenza nazionale; oggi, infatti, l’inasprirsi del carcere duro per i reati di mafia fa sì che i boss vengano allontanati dai luoghi d’origine e reclusi nei penitenziari dell’Italia centro-settentrionale; ciò impone ai clan di escogitare nuovi sistemi per comunicare: in passato, addiritturala Raisi è fatta inconsapevole intermediaria (emblematico in tal senso quanto emerso da un’indagine di pochi anni fa la quale ha dimostrato che, durante la trasmissione domenicale “Quelli che il calcio”, tra i tanti sms che scorrevano in sovrimpressione ce n’erano alcuni sospetti; dopo gli accertamenti delle forze dell’ordine, si è scoperto che si trattavano di comunicazioni criptate per i boss in carcere).

Non va poi dimenticato che, grazie al moltiplicarsi delle parabole, molte delle tv locali hanno già una dimensione europea e propriola Campania è al primo posto nella speciale classifica del maggior numero di emittenti locali e regionali presenti sul satellite; parliamo di un territorio che, con circa 70 televisioni e oltre 165 radio locali, è ad oggi la terza regione italiana per numero di licenze rilasciate; un tesoro che, grazie all’enorme quantità di contributi pubblici riservati all’emittenza privata, si attesta attorno ai 12 milioni di euro annui; buona parte dei quali letteralmente “rubati” allo Stato.

L’unico timore che potrebbe indurre la “Telecamorra” ad evitare il grande salto risiede nel fatto che, un’espansione su larga scala, comporterebbe maggiore visibilità, maggiori controlli esterni e, di conseguenza, una quantità decisamente eccessiva di rischi; molto meglio un piccolo regno che un grande castello di sabbia.

Anche perché, nel frattempo, l’attenzione nei confronti della “Telecamorra” sta aumentando: quattro anni fa, nel 2008, con l’inizio del passaggio al digitale terrestre, si è scatenata una nuova guerra delle frequenze, paragonabile solo a quella che c’era stata prima dell’approvazione della legge Mammì; in quel periodo, alcuni editori campani “puliti” hanno presentato degli esposti alla magistratura (pochi, per la verità) denunciando l’occupazione illegale di molte frequenze. Da lì è partita una complessa indagine su due binari, promossa da alcuni cronisti locali affiancati da magistrati e forze dell’ordine, che ha sollevato il sipario su un fenomeno fino a quel momento rimasto quasi ignorato e oggetto, al più, di sospetti difficilmente verificabili. Oggi il quadro è notevolmente cambiato: a cadenza periodica si susseguono nuove indagini (alcune attualmente in corso) cui fanno seguito arresti a volte anche eccellenti. Ma ciò non basta, ci vorrebbe una rivoluzione culturale per impedire alla criminalità organizzata di mettere le mani su un settore che dovrebbe essere al servizio della collettività e che, al contrario, viene piegato a interessi privati, per giunta malavitosi.

Per ora, le vittime principali sono ancora quelli che hanno tentato di fare luce sulla vicenda. Parliamo in particolare di Alessandro De Pascale, un giovane giornalista che, quando ancora si sapeva poco sulla “Telecamorra”, ha deciso di approfondire il tema cercando le prove di come la camorra si stesse arricchendo grazie alle tv locali; ne è scaturito un libro-inchiesta che lo ha esposto a quotidiane minacce cui, purtroppo, non ha fatto eco l’intensificarsi delle indagini “ufficiali”; lui, nonostante tutto, continua per la sua strada nella consapevolezza di muoversi su un campo minato; anche se, obiettivamente, lottare per il bene del pluralismo dell’informazione e per il rispetto della legalità non dovrebbe comportare, in una società sana, un prezzo così alto da pagare come quello di mettere a repentaglio la propria vita. Nel frattempo, inoltre, centinaia di aziende stanno morendo strette nella morsa di un racket mascherato quasi come fosse volontario (ed, effettivamente, è questa l’immagine che appare all’esterno) e sono molti gli imprenditori che ogni giorno gettano la spugna nella convinzione che la tendenza non potrà mai essere invertita.

E invece no: con l’aiuto di una società civile consapevolmente attiva, appoggiata adeguatamente da istituzioni e forze dell’ordine, questa è una battaglia per la legalità che si può ancora vincere. Il tempo c’è.

Marcello Gelardini

Ti potrebbe interessare

Master in giornalismo LUMSA
logo ansa
Carlo Chianura
Direttore delle testate e dei laboratori
Fabio Zavattaro
Direttore scientifico
@Designed & Developed by Bedig