Chi meglio di Antonio Turri, referente di Libera per la regione Lazio, può spiegare cos’è la “Quinta Mafia” nei dettagli e nei possibili risvolti. Da ex poliziotto molte delle storie avvenute in questo territorio, legate più o meno direttamente alle organizzazioni criminali di stampo mafioso, le ha vissute in prima persona. Per questo abbiamo chiesto proprio a lui una ricostruzione del fenomeno.
Che cosa s’intende per “quinta mafia”?
«Non è altro che l’evoluzione naturale che le mafie hanno avuto nel nostro paese sin dal momento della loro nascita».
Ma tecnicamente come funziona?
«Si tratta di una collaborazione tra più gruppi mafiosi su un altro territorio non direttamente influenzato da mafie autoctone».
Si tratta, quindi, di una mafia che, una volta radicata si ferma?
«Assolutamente no; anzi, è l’esatto contrario: è un fenomeno nazionale e, addirittura, transnazionale; il Lazio è la prima regione in cui imparano a convivere le mafie cosiddette “tradizionali” (soprattutto Cosa nostra, camorra e ndrangheta) ed in cui iniziano ad influenzare i diversi settori dell’economia e della politica».
Cosa comporta questa collaborazione criminale?
«La commistione di queste mafie “d’importazione” costituisce un sistema malavitoso nuovo, una cultura mafiosa nuova, che riesce ad avere sviluppi maggiori rispetto a ciò che riuscirebbero a fare nei territori d’origine. In sostanza è un potere criminale che trova le capacità per trasformarsi in potere politico ed economico creando attorno a sé addirittura un consenso sociale, più o meno esplicito e volontario, che le consente di agire indisturbata e di crescere a dismisura».
E qual è il risultato di questa complessa dinamica?
«Scaturisce una nuova forma di mafia, un vero e proprio “sistema culturale” che pone le basi per far sì che venga anche negata la sua presenza da parte della società civile, proprio perché quasi invisibile agli occhi dei più; diventa un modus operandi considerato normale, rientrante nell’ordine naturale delle cose; una mafia “pulita”. Questo è il vero paradosso che la quinta mafia è riuscita a generare».
Come s’inserisce il lavoro di Libera nel Lazio?
«Libera vuole fare informazione vera, concreta; lo strumento principale è quello, appunto, della libera informazione: andare sui territori e raccontare ciò che le mafie hanno fatto in quelle zone per trasformarle in base alle proprie esigenze, quasi sempre un lavoro effettuato in maniera subdola e paziente ma continuativa, senza lasciare spazio ad eventuali ondate di riflusso e rigetto da parte della popolazione che, al contrario, risulta inconsapevolmente coinvolta nelle dinamiche criminali».
Quale può essere il valore aggiunto di un’operazione culturale del genere?
«Il lavoro di Forze dell’ordine e Magistratura può contribuire a sconfiggere la componente militare delle mafie, ma questa è solo la punta dell’iceberg. Tutto il lavoro sommerso che le mafie compiono e che porta alle collusioni con i poteri forti può essere vanificato solo dalla cosiddetta “società civile responsabile”. Libera vuole proprio creare una frattura fra organizzazioni criminali e società civile creando il conflitto: un conflitto pacifico, che antepone a tutto la ricerca della verità».
In concreto, quale deve essere il compito della gente che tiene al bene del proprio territorio?
«C’è bisogno che la “società civile responsabile” si organizzi per diventare una valida alternativa. Se le mafie vengono percepite come opportunità, seppur distorte, perché di riflesso ai propri traffici creano lavoro, si devono poter creare nuove opportunità, pulite e realmente in grado di far crescere una comunità e non, al contrario, arricchire chi dall’esterno sfrutta la situazione. Se le mafie scrivono sui territori storie negative, la società responsabile si deve adoperare per scrivere una storia alternativa».
Marcello Gelardini