Abbiamo chiesto al consigliere scientifico di Limes, Fabrizio Maronta, un parere sulla intricata situazione in Libia, con una guerra civile in corso che rischia di incendiare il Mediterraneo.
Qual è la situazione attuale nell’intricato scacchiere libico?
“Sostanzialmente ci troviamo in un momento della vicenda in cui ci si è spinti troppo avanti perché si possa raggiungere una soluzione politica. Non è detto che questo significhi che assisteremo a una vittoria schiacciante di una delle parti in causa, ma non credo sia pensabile che il generale Khalifa Haftar accetti di riportare le lancette indietro allo scorso aprile (data di inizio dell’offensiva per la presa di Tripoli), rinunciando ai territori conquistati in questi mesi. Perderebbe immediatamente il ruolo che si è ritagliato in questi anni e l’appoggio dei Paesi che lo sponsorizzano e delle tribù libiche che lo appoggiano”.
A questo proposito, ci può aiutare a definire bene il quadro delle alleanze: chi sostiene i due schieramenti e per quali ragioni lo fa?
“Con gli ultimi sviluppi sono emerse più nitidamente convergenze che già erano in atto da tempo. Dalla parte del generale Haftar ci sono Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Russia e Francia. Il governo di Fayez Al-Serraj, tra l’altro riconosciuto dalla comunità internazionale, vede come principale sostenitore la Turchia di Erdogan e, con un ruolo più marginale, il Qatar. Al Cairo sono interessati principalmente a rendere stabile la Cirenaica, per controllare la zona desertica di confine tra Egitto e Libia. Questo soprattutto per evitare che tagliagole e terroristi varchino la frontiera e minino ancora di più la sicurezza nel Sinai. Hanno individuato in Haftar l’uomo in grado di assolvere a questo compito e lo appoggiano decisamente dall’inizio, anche perché è un laico ostile ai Fratelli Musulmani, e con la storia recente dell’Egitto non è un dettaglio secondario (elezione a presidente di Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, poi rimosso in seguito a un colpo di Stato del generale Al-Sisi). La Russia si sta impegnando nel conflitto sostanzialmente nell’ottica di una strategia di recupero di influenza nel Mediterraneo. Appoggia Haftar sia perché è storicamente in buoni rapporti con l’Egitto sia perché il generale rappresenta, secondo Mosca, un baluardo contro il terrorismo islamico e la Russia, che ha problemi interni con la minoranza musulmana, teme che la Libia si possa trasformare in un campo di addestramento per eventuali foreign fighters. Detto questo credo che Putin sia molto più trattativista nell’appoggio ad Haftar di quanto lo sia stato con Bashar Al-Assad in Siria. Non sono infatti troppo convinto che voglia un Governo da “mantenere”, con la questione Crimea ancora aperta. Anche perché la Russia ricava la maggior parte dei proventi dall’esportazione di petrolio e nell’ultimo periodo sono scesi sensibilmente. Per quanto riguarda la Francia, a Parigi hanno interesse a difendere i propri interessi economici in Cirenaica legati al petrolio e, in un’ottica neocoloniale, la Libia è strategica per controllare l’Africa subsahariana. La principale novità invece è la Turchia: con una strategia da molti definita “neo-ottomana” vuole tornare a dire la sua nel Mediterraneo, puntando sulla Libia, da sempre considerata insieme a Cipro un avamposto. E’ nell’interesse di Ankara chiaramente anche mantenere determinati privilegi nell’importazione di energia, essendo un Paese quasi privo di materie prime”.
In tutto questo invece che partita gioca l’Italia?
“Il ruolo italiano nella vicenda è, in questo momento, minato dall’incertezza che regna nel governo che impedisce di tenere una linea chiara. Tuttavia, la nostra influenza è ancora rilevante per diversi motivi. Innanzitutto una presenza come quella dell’Eni è difficile da scalzare: è una struttura talmente imponente da essere dotata anche di una propria intelligence. Proseguono inoltre i buoni rapporti che abbiamo con le milizie di Misurata, cioè quelle che presidiano i pozzi petroliferi. E’ importante anche ricordare che la presenza italiana, pur con il nostro passato coloniale, almeno in Tripolitania (dove si trovano banca centrale libica e National oil company), non è mal vista dalla popolazione. Abbiamo rapporti di fiducia reciproca con i libici consolidati nel tempo. La stessa cosa non si può dire invece per chi punta a scalzarci. La Francia infatti, con un fardello coloniale molto più pesante, basti pensare solo a quanto successo in Algeria, non viene vista di buon occhio e attira diffidenze”.
Per quanto riguarda i flussi migratori verso il nostro Paese invece, Il caos attuale o l’ insediamento di un nuovo ordine in Libia, a noi ostile, potrebbero far tornare la situazione ai livelli di guardia del 2015/2016?
“Paradossalmente, è una constatazione sicuramente cinica ma anche fattuale, il caos che regna ora in Libia aiuta a rendere il fenomeno sotto controllo per noi. Per due motivi: è più difficile per i migranti dell’Africa Sub-sahariana raggiungere la Libia in sicurezza e è ancora più complesso per le organizzazioni criminali gestire tutta la logistica necessaria per tenere in piedi traffici di questo tipo. Mancano punti sicuri da dove far partire le imbarcazioni, non è semplice rifornirle tutte di carburante in momenti in cui scarseggia, e la manutenzione delle barche è resa più complessa dal conflitto. Qualora dovesse invece diventare presidente Haftar, si dovrà siglare un nuovo accordo sui migranti, come abbiamo fatto con Gheddafi prima e con Serraj poi”.