Kobe Bryant, leggenda del basket, se ne è andato ieri, vittima di un incidente in elicottero, all’età di 41 anni. Con lui, a bordo del mezzo che si è schiantato sulle colline di Calabasas, nelle vicinanze di Malibu, altre 8 persone, tra cui la seconda figlia di Bryant, Gianna Maria Onore Bryant di 13 anni. Kobe – che come capita per le icone della cultura popolare, aveva bisogno del solo nome di battesimo per essere riconosciuto – era in volo verso la sua accademia di pallacanestro, dove allenava la squadra delle ragazze in cui giocava la figlia Gianna, lui, che padre di quattro sorelle, era in prima linea per la valorizzazione degli sport femminili.
Kobe Bryant è stato il più importante giocatore della sua generazione, quella che ha dovuto fare i conti con i ripetuti addii al basket di Michael Jordan. In una lega, l’Nba, che tende a esaltare i propri giocatori in modo assoluto, rendendoli spesso più grandi delle squadre in cui giocano, Kobe è stato per anni il biglietto da visita dell’intero basket americano. Cinque titoli Nba, 2 medaglie d’oro olimpiche con la nazionale statunitense, quarto marcatore di sempre nella storia del basket d’oltreoceano, vent’anni di carriera tutti con un’unica maglia, quella gialloviola dei Los Angeles Lakers. O meglio 2 maglie, la 8 e la 24, i due numeri che Kobe ha indossato nella sua immensa vita sportiva, entrambi ritirati, caso unico nello sport mondiale.
Era nato a Philadelphia, figlio di Pamela e Joe, anch’egli cestista. Al seguito di “Jelly Bean”, il soprannome con cui era conosciuto il padre, Bryant era venuto in Italia, all’età di sei anni e ci era rimasto fino ai 13. Rieti, Pistoia, Reggio Emilia e Reggio Calabria, le città in cui aveva giocato Joe nel suo peregrinare sportivo e dove Kobe ha alimentato la sua ossessione per il basket e la vittoria. Un’ossessione che era conosciuta da tutti nel mondo della pallacanestro, l’unico approccio che il 24 conosceva per sfuggire all’insopportabile dolore per la sconfitta. In queste ore sono stati in molti a ricordare i suoi allenamenti massacranti, alle 4 di mattina, quando Kobe era già a sudare sotto i canestri con addosso la paura che qualcuno potesse essere più pronto di lui la sera della partita. Non poteva perdere e non lo fece nemmeno la notte degli Oscar del 2018, quando vinse una statuetta con un cortometraggio animato, sceneggiato con la sua lettera d’addio al basket giocato.
Non esiste persona all’interno dell’Nba che non ne riconoscesse la grandezza. Michael Jordan, il mito di Bryant, che ne ha studiato ogni singola contrazione muscolare, emulandola sui campi di gioco, ha parlato di lui come di un fratello minore. Per lui messaggi sono arrivati anche da Donald Trump e Barack Obama, amico personale di Kobe, del quale, al termine del suo ultimo discorso da presidente, imitò il modo di congedarsi, lasciando cadere il microfono a terra, così come fece il 24 dopo il saluto all’Nba alla fine della sua ultima partita.
Oggi tutti rimpiangono il giocatore, piangono l’uomo, commemorano la leggenda. Atti dovuti a chi, anche solo con un tiro, ha emozionato milioni di appassionati del basket.