Tutti i giornalisti hanno (o almeno avevano) la penna con sé, ma Giampaolo Pansa aveva qualcosa in più: lui si portava il binocolo, per scrutare i dettagli e scrivere quello che gli altri non solo non potevano vedere, ma probabilmente non potevano neanche immaginare. È morto all’età di 84 anni, 57 dei quali dedicati al giornalismo.
Nato a Casale Monferrato nell’ottobre del 1935, Pansa è stato uno dei cronisti e dei commentatori più noti ai lettori italiani. Firma dei più importanti quotidiani italiani: iniziò con la Stampa, per poi passare al Corriere. Ma la stagione più lunga è legata a Scalfari e alla Repubblica. Il suo “Scrivo da un paese che non esiste più” è il ritratto più duro, triste e straordinariamente bello del disastro del Vajont.
«Immaginifico e ultracreativo, Pansa ha reinventato e dato nuova linfa al giornalismo politico, con le sue intuizioni linguistiche, le balene bianche, i bestiari, i Dalemoni, crasi fra D’ Alema e Berlusconi, per spiegare l’inciucio fantasioso», ha ricordato Giulio Anselmi, che è stato direttore dell’Espresso quando lui ne era condirettore. Una convivenza che ricorda come un periodo buono, anche se aggiunge che spesso «bisognava ricordargli chi era il direttore. E forse il non avere mai avuto una direzione è stato il cruccio della sua vita».
Il vero trauma, più degli attacchi politici, fu la morte prematura del figlio Alessandro. vicepresidente di Feltrinelli e docente alla Luiss, oltre che amministratore delegato di Finmeccanica fino al 2014, scomparve nel 2017 e il padre fu profondamente segnato. Lo salvò l’amore per Adele, la donna che gli è rimasta al fianco fino all’ultimo.